Durante le rivolte popolari birmane di fine anni 80, Aung San Suu Kyi, allora militante democratica, disse, in una famosa intervista alla stampa estera, che un suo futuro governo non avrebbe avuto vita facile a causa dei problemi che avrebbe trovato dopo decenni di cattivo governo militare.
Allora prediceva che la gente si sarebbe espressa mettendo sotto torchio la sua amministrazione eletta in modo popolare.
Quasi trenta anni dopo, da capo di stato di fatto Suu Kyi si trova davanti a più problemi dopo un anno di governo di quanto previsto in precedenza. Ora è criticata apertamente, sia in Birmania che all’estero, per tante difficili questioni che vanno da una economia lenta agli abusi dei diritti umani sponsorizzati dallo stato.
Il già premio Nobel, senza dubbio, sta vivendo un periodo molto difficile come capo di stato.
Nonostante Suu Kyi abbia sponsorizzato e spinto per i colloqui di pace, c’è ora più guerra che pace nel paese con i conflitti che ardono in varie parti. Sono fuggite dalle case oltre 100 mila persone negli scontri recenti tra forze statali e gruppi etnici armati nello stato settentrionale Kachin e nello stato nordorientale Shan, finendo in squallidi campi di fortuna.
Suu Kyi ha trovato anche critiche dalla comunità internazionale per gli abusi commessi dalle forze di sicurezza, tra i quali vi sono le denunce ben documentate di assassinio e stupo dei Rohingya nello stato occidentale Rakhine. Le sue elusioni delle accuse hanno alimentato le percezioni che lei abbia reso prioritario le relazioni stabili con i militari sulla promozione dei diritti.
Nel frattempo l’investimento estero è diminuito da quando ha preso il potere e l’economia arranca nonostante le speranze iniziali di un boom post-elettorale. La libertà dei media, dopo un alleggerimento delle restrizioni sotto il governo precedente, sono ancora bersagliate, mentre i giornalisti sono messi in galera per commenti critici contro i militari ed anche membri del NLD.
Mentre cresce la lista dei problemi nazionali, resta la domanda: quanto potere ha Aung San Suu Kyi per contrastare i militari ed imporre un ordine più democratico?
La costituzione militare, scritta sotto gli auspici dei militari ed adottata dopo il referendum di maggio 2008 considerato da molti come truccato, ha garantito la continuità piuttosto che il cambiamento, usando anche un ruolo guida di ferro dei militari nella politica con un blocco del 25% dei seggi. La costituzione ha garantito che i militari prendano ordine solo dal comandante in capo, generale Min Aung Hlaing,
Con questa costituzione i militari nominano il ministro della difesa, degli interni e dei confini. Il ministro degli interni a sua volta controlla polizia e servizio civile a tutti i livelli, dai villaggi all’amministrazione centrale. Ciò che rimane per i rappresentanti eletti sono posti di rappresentanza come ministeri e capi comitato parlamentari.
“Suu Kyi sta ingiustamente prendendosi le critiche degli abusi militari” dice un analista a Bangkok che osserva da vicino la politica birmana. “E’ chiaramente una strategia a lungo corso per tenere in corsa la democrazia, ma non è forse vinta in astuzia fino al punto che non ci potrebbe essere via di non ritorno?”
Le prossime elezioni si terranno nel 2020 e Suu Kyi avrà 75 anni senza che sia apparsa una nuova generazione da crescere per portare la bandiera del NLD. Il partito dei militari USDP che ha governato il paese in stile quasi civile prima della sua sconfitta alle lezioni 2015, forse non è destinato ad un ritorno completo alle prossime elezioni.
“Ma ci sono altre opzioni che i militari accetterebbero per restare al potere per un prossimo futuro” dice l’analista.
Molti in Birmania e all’estero sono quindi arrabbiati per la mancanza di azione di Suu Kyi nella promozione di un sistema più democratico. Notano anche un cambio di tono dai discorsi di ispirazione di Suu Kyi prima delle elezioni del 2015, tra i quali vi è uno in cui disse: “Per la prima volta in tanti decenni il popolo avrà la possibilità reale di causare un cambio reale. E’ una possibilità che non ci possiamo lasciar sfuggire”.
Ma quella finestra di opportunità si sta chiudendo discutibilmente presto. Il solo atto di Suu Kyi fatto per bilanciare il potere dei militari è quanto fatto a gennaio con la nomina di Thaung Tan, vecchio diplomatico, come consigliere della sicurezza del governo. Questa nomina fu criticata aspramente da Ye Htut che fece da ministro dell’informazione nel governo sostenuto dai militari di Thein Sein.
In un articolo di Ye Htut apparso sul Today di Singapore del 21 gennaio, l’autore definì la nomina di Thaung Tun “un passo rischioso” continuando a dire che “gli scorsi governi civili di U Nu e Thein Sein … avevano onorato” un accordo in cui si affermava che “la sicurezza interna è solo dominio dei militari birmani ed il comandante in capo è il solo consigliere principale del governo”
Molti si domandano se Thein Sein, ex generale che è stato primo ministro di una giunta militar e presidente dell’amministrazione prima della vittoria di Aung San Suu Kyi, abbia mai guidato un regime “civile”. U Nu guidò vari veri governi civili dal 1948 al 1962 e non fu mai sotto l’obbligo di prendere ordini dai militari.
Infatti la costituzione del 1947 affermava chiaramente che “il diritto a creare e mantenere le forze aeree, militari e navali sta esclusivamente nel parlamento” e che “Nessun altro se non le forze create e mantenute dall’Unione con il consenso parlamentare saranno create o mantenute”
Il principale errore politico di U Nu, che portò alla sua caduta e a decenni consecutivi di duri governi militari, fu che non riuscì ad usare i suoi poteri costituzionali per impedire che i militari diventassero uno stato nello stato fino a consolidarsi col golpe sanguinoso del 1962 che abolì la prima ed unica costituzione democratica del paese.
Se si considera il potere che i militari ancora hanno, pochi credono che Aung San Suu Kyi sarà deposta allo stesso modo, poiché i grandi capi temono che un altro golpe possa portare al ritorno delle sanzioni occidentali. Le elezioni del 2010 che portarono Thein Sein e USDP al potere erano per molti le “elezioni dei generali” piuttosto che elezioni generali.
NLD boicottò quelle elezioni truffa. Ora però sorge la domanda se anche le elezioni del 2015, che NLD vinse a man bassa con un trasferimento pacifico del potere, non siano state elezioni dei generali, sebbene con una patina più democratica delle precedenti.
Suu Kyi nella sua ricerca della riconciliazione nazionale, ha finora mostrato pochissimo interesse a cambiare la struttura di potere dominata dai militari. Con un sostegno popolare enorme e riconoscimento internazionale che Suu Kyi gode ancora, molti in Birmania si domandano: se non è Aung San Suu Kyi a sfidare il potere politico dei militari, chi lo farà mai?
Il rischio è che la Birmania rimanga, dopo le elezioni del 2020 e quando la settuagenaria Suu Kyi sarà andando fuori dalla scena politica, un paese diretto dai militari con soli simboli democratici.
Bertil Lintner, Asiatimes