Lo scorso mese il capo di fatto della Birmania, Aung San Suu Kyi, indisse una conferenza per provare a porre fine alle tante guerre che devastano il paese da oltre mezzo secolo. Capi dei militari e dei gruppi etnici armai, politici e militanti della società civile discesero su Naypyidaw con lo scopo chiaro di raggiungere quello che il partito di Suu Kyi, NLD, promise quando giunse al potere, la riconciliazione nazionale. Ma resta sempre lontano come prima la fine dei conflitti armati.
Mentre il comandante dei militari birmani descriveva in quella conferenza il suo “desiderio bruciante” di portare la pace nel paese, emergevano video di militari birmani che torturavano uomini dei gruppi etnici in abiti civili. Mentre un comandante colpiva ripetutamente un uomo, diceva: “Ti spezzerò tutti i denti e ti taglierò la lingua”
Questa è la brutalità che i militari birmani continuano ad usare contro le comunità etniche. Nulla di nuovo perché a dicembre emersero altri video simili che mostravano le forze di sicurezza nello stato Rakhine picchiare alla stessa maniera uomini Rohingya.
Eppure il governo della Suu Kyi ha annunciato che bloccherà la missione conoscitiva dell’ONU che indagherà sui possibili colpevoli. Se i capi birmani sono seri nel voler portare a termine la guerra civile e la cultura dell’impunità nel paese, devono fare di tutto in loro potere per cooperare con la missione ONU.
Il 24 marzo scorso il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU approvò una risoluzione epocale che comanda una missione conoscitiva in Birmania “per accertare i fatti e le circostanze delle presunte violazioni recenti di diritti umani da parte di militari e forze di sicurezza… con l’idea di assicurare la completa responsabilità per i colpevoli e giustizia per le vittime.”
La scorsa settimana Aung San Suu Kyi, piuttosto che accettarla, ha detto in una conferenza stampa con il primo ministro svedese Stefan Lofven che la missione conoscitiva non era “in sintonia con i bisogni della regione in cui proviamo a stabilire armonia e comprensione”. Precedentemente aveva detto che il governo birmano si era dissociato dalla risoluzione, perché “non è in accordo con quanto succede sul terreno”.
La difesa appena velata delle forze di sicurezza birmane è l’ultimissimo esempio del suo fallimento nel promuovere e proteggere i diritti umani ed una flebile giustificazione per aver precluso la missione conoscitiva. La sua resistenza è particolarmente problematica se si considera che la sua statura senza paralleli nel paese potrebbe cambiare l’opinione pubblica in favore della giustizia e della responsabilità.
Comunque ciò non deve oscurare la ragione vera per la chiara opposizione governativa alla missione conoscitiva. Dietro le scene, i capi militari birmani fanno di tutto per frustrare l’amministrazione di Aung San Suu Kyi e tenere lontani gli occhi internazionali lontano dai loro crimini nelle aree settentrionali ed occidentali.
L’incapacità del governo a riconoscere ed ad indagare come si deve le recenti atrocità contro i civili musulmani Rohingya nello stato Rakhine spinse l’ONU a decretare la missione. Il mandato è comunque vasto e non limitato alle indagini sui diritti umani nello stato Rakhine. E’ una buona cosa per la Birmania e non c’è un periodo migliore per una missione di indagine per fare il suo lavoro.
Sotto l’amministrazione di Aung San Suu Kyi gli scontri nella Birmania settentrionale sono cresciuti e 100mila persone sono profughe da quando è ripreso il conflitto con l’esercito Kachine, KIA, nel 2011. Sono stati documentati da più parti gli omicidi extragiudiziali, gli stupri, la tortura, il lavoro forzato e gli attacchi indiscriminati durante il conflitto. Sono stati pesantemente tagliati gli aiuti salva vita per le persone scampate. Migliaia non hanno adeguati rifugi, alimenti o sanità.
Nello stato Rakhine i militari hanno condotto operazioni di rastrellamenti in vari villaggi dopo l’attacco di ottobre da combattenti Rohingya alle postazioni della polizia di frontiera. Da dicembre Fortify Rights documentò i casi di stupro dei militari birmani contro donne e ragazze, le persone a cui fu tagliata la gola o bruciate vive. Quanto da noi trovato è molto simile a quanto pubblicato nel rapporto dell’ONU di febbraio. In esso si concludeva che le forze di sicurezza avevano commesso crimini contro l’umanità.
Il governo civile di Aung San Suu Kyi si trova in un punto delicato. Secondo la costituzione del 2008 i militari possono dichiarare lo stato di emergenza e sospendere governi eletti. Comunque non è probabile che ciò possa accadere e questa prospettiva oscura non giustificherebbe la totale negazione delle atrocità e l’attiva ostruzione alla giustizia. Inoltre il sostegno per la missione ONU cresce: tantissime organizzazioni nel paese hanno fatto pressioni sul governo per cooperare completamente con la missione conoscitiva.
La testimonianza della brutalità dei militari birmani comparve mentre i delegati tornavano alle loro case nelle aree di conflitto. Una conferenza che era intesa come un passo avanti alla riconciliazione nazionale servì invece per ricordarci del più grande ostacolo che si erge sul suo cammino: la impunità per i crimini dei militari birmani.
Dare un accesso completo alla missione dell’ONU affinché indaghi sulle violazioni fatte dai militari aiuterebbe a terminare quell’impunità, prevenire nuove violazioni e guadagnarsi la fiducia necessaria dalle minoranze birmane che soffrono da troppo tempo.
David Baulk, Fortify Rights, AlJazzera