Potete scommettere su quello che avverrà prima, l’incriminazione formale di Vorayuth “Boss” Yoovidhya, oppure se sarà data la libertà provvisoria a Jatupat Pai Dao Din Boonpattararaksa.
Nel casinò dell’in/giustizia le probabilità si accumulano contro uno e favoriscono l’altro. E voi sapete chi è.
Vorayuth nel 2013 investì ed uccise un poliziotto mentre andava ad alta velocità sulla Sukhumvit nella sua Ferrari. Dopo di allora non ha mai messo piede vicino ad una stazione di polizia né una prigione.
Pao Dao Din, come sappiamo tutti, è detenuto sin dal dicembre scorso per aver condiviso un articolo su Facebook. Gli è stata ripetutamente negata la libertà provvisoria.
Il nome di famiglia di uno appare regolarmente nella pagine di Forbes; l’altro lo si legge con regolarità nel libro delle registrazioni del visitatore in prigione. Sapete chi è.
Uno sta ancora usando Facebook, fino a poco tempo fa almeno, per pubblicizzare la sua vita da ricco, dai pranzi in Francia allo snowboarding in Giappone. L’altro non ha toccato da mesi un computer se non quando ha fatto gli esami in carcere. Non c’è bisogno di suggerimenti. Sapete chi è.
Vorayuth ha 31 anni, nipote del mogul delle bibite energetiche. Jatupat ha 25 anni, figlio di due avvocati.
I due giovani non hanno nulla a che fare tra di loro, ne sono cosciente, e sono cosciente che sto montando una doppia giustapposizione. Ma cos’altro potrei fare quando i loro casi, nei loro modi malati, esemplificano lo stato della Thailandia nel 2017, la cui coscienza attraversa un doloroso test senza fine?
Cos’altro potrei fare quando ho aperto il giornale ieri e Vorayuth e Jatupat erano sui titoli di testa?
“La polizia nega di tenere in stallo il caso di Boss” riferendosi a quel misterioso ritardo nella traduzione di una richiesta di estradizione. Allora, “i militari revocano la libertà provvisoria per Pai Dao Din” riferendosi alla decisione della corte marziale di revocare la libertà provvisoria di Jatupat. Un po’ confuso, “libertà provvisoria revocata” ma l’uomo sta in carcere da mesi. Questo perché il caso in questione riguardava la sua partecipazione alla protesta contro il golpe del 2015, e non il “crimine” della condivisione di un articolo per cui non gli fu data la libertà provvisoria.
Comunque qual’è la differenza? A piedi nudi, Jatupat è stato riportato nella prigione di Kohn Kaen.
I due uomini thailandesi nel 2017: uno si trova da qualche parte a latitudini più alte, ad abbronzarsi all’estate europea. L’altro si trova esattamente dove si trova da dicembre scorso, dietro le sbarre e sotto un tetto sicuro impregnato dalle ultime piogge dell’Isaan. Uno non lo riescono a trovare tutte leforze di polizia; l’altro lo si può localizzare sul GPS del vostro cellulare battendo Istituzione Correttiva Speciale di Khon Kaen.
Uno è l’esempio del privilegio, l’altro un simbolo di resistenza. Uno ci mostra cosa possono fare il titolo, la ricchezza o le connessioni in tale completo discredito della legge; l’altro ci mostra come la vita è così fragile e dignitosa seppur toccante. I due giovani sono di fatti connessi: sono i due volti della Thailandia di oggi.
Non siamo infatti sorpresi neanche un poco sui nuovi due punti. Nessuno si attende che la polizia dica qualcosa di remotamente illuminante oltre che ad insistere che il ritardo non era intenzionale, e che poiché la traduzione è ora completa erano intenzionati a portare l’uomo in giudizio, dopo qusi quattro anni.
L’incidente della traduzione è sembrata uno scherzo kafkiano all’inizio, finché non si capisce che Kafka non è mai morto nel labirinto della burocrazia siamese.
In modo simile gli osservatori non si sono mai attesi che Jatupak sarebbe stato liberato. Gli sono state rigettate per sette mesi nove richieste di libertà provvisoria. Ecco il suo destino è connesso a quello di Vorayuth attraverso Kafka e la sua favola “Davanti alla legge”, che non è mai sembrata più appropriata.
In questa storia di due pagine un uomo inerme di campagna richiese al potente guardiano di accedere alla “Legge”, un dominio allettante che si suppone sia accessibile a tutti. Ma le richieste dell’uomo erano continuamente rigettate, di volta in volta, di anno in anno, finché non gli si indebolì la vista ed il corpo invecchiò.
L’uomo che continuava e non se ne andava nonostante stesse alla fine della vita, chiese disperato al portinaio: “Tutti aspirano alla legge, allora perché in tutti questi anni nessun altro che me abbia richiesto di entrare?”
“Il guardiano”, continua la storia, “vede che l’uomo è davvero agli estremi e per riuscire a raggiungere il suo udito che già si spegne gli urla “Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo”
Per Jatupat e Vorayuth, e per tutti noi, questa è la storia dei nostri tempi.
Kong Rithdee, Bangkokpost.com