Continua la battaglia di Marawi dopo oltre cento giorni dal suo inizio, sebbene si vada restringendo l’area ancora occupata dai militanti del gruppo Maute Abu Sayaff.
Dopo aver liberato la moschea di Marawi City, sono stati riconquistati ed aperti anche due ponti che collegano la città più storica al resto del territorio.
Mercoledì scorso fu aperto alla stampa il Ponte Mapandi che rappresenta una arteria fondamentale per il cuore della città e per i rifornimenti ai militanti, ora ridotta quasi in macerie dai combattimenti.
Poi è stata la volta del Ponte Banggolo, mentre ne resta un terzo Raya Madaya ancora occupato dai militanti. Una volta liberato questo si entrerà nella fase finale della liberazione di Marawi.
Il Ponte di Banggolo che rappresenta un’altra via di rifornimento è costata la vita a 3 militari a causa di bombe improvvisate lasciati dai militanti. Questo ponte rappresenta il punto più vicino alla linea del fronte e per questo si crede che la fine del conflitto si stia avvicinando.
Le cifre parlano di 136 soldati uccisi e 620 militanti uccisi e di 45 civili morti, in una battaglia iniziata il 23 maggio.
Sul destino del prete e dei fedeli sequestrati si ritiene che siano ancora vivi e si spera che possano essere recuperati vivi.
La situazione umanitaria conseguente a questa battaglia di Marawi è preoccupante sia sul piano fisico che politico per la sua capacità di diventare un punto a favore dei gruppi fedeli all’ISIS.
Continua la battaglia di Marawi e la crisi umanitaria dei campi di evacuazione
Le agenzie umanitarie hanno messo in guardia rispetto all’approfondimento della crisi nei campi di evacuazione per le migliaia di persone sradicate negli oltre cento giorni di combattimenti a Marawi, dove per tutti si sono perse le prospettive di trovare un lavoro ed i disabili sembrano essere stati totalmente abbandonati.
Nei campi ai bordi della città, a preoccupare gli evacuati sono le prospettive di un futuro, mentre si sentono al sicuro.
“Non so cosa fare. Le gambe mi fanno costantemente male e la mia vista vacilla” dice Ali Haji Ibrahim, nonno di otto bambini. “Siamo qui da tre mesi. Vogliamo tornare a casa. Ma dove? La nostra casa è stata rasa al suolo”.
Ibrahim ha descritto una fuga pericolosa uno dei giorni dopo l’attacco dei militanti legati allo stato islamico che ha trasformato una città prospera in un cumulo di macerie.
Da patriarca del clan ha descritto come riuscì a tirarli tutti fuori dall’area, mentre gli uomini armati giravano per le case nel basso distretto di Dansalan dove vivevano e facevano domande sull’Islam ed uccidendo chi non riusciva a dare una risposta soddisfacente.
Un giovane vestito di nero ed armato con un fucile li fermò lasciandoli dopo aver visto il vecchio, ha ricordato Ibrahim. Si udivano i crepitii dei fucili mentre se ne andavano. Come loro anche altri vicini provavano disperatamente a scappare.
“Avevamo un piccolo negozietto. Ora non abbiamo nulla, ora il cibo scarseggia. Puoi mangiare l’aria che respiri?” dice il vecchio.
La famiglia ora vive in un centro di evacuazione affollato dentro una scuola chiamata “Piazza del popolo” nella cittadina di Saguiaran a dieci chilometri da Marawi insieme ad altre 200 famiglie.
I capi del campo hanno provato ad infondere una sembianza di ordine tra gli evacuati, ma si tocca con mano la disperazione. Non c’è lavoro per i maschi, mentre molte delle donne sembrano scioccate. Sembrano avere lo sguardo fisso nel vuoto.
Saia Iriot, una donna di famiglia di 34 anni, dice di temere per i suoi sette figli, il più piccolo dei quali ha solo tre anni. Manca da mangiare nel campo, dice, ed i più grandi provano ad afferrare utto quell oche possono quando arrivano i rifornimenti.
“Sono sempre insufficienti” dice piangendo mentre sta sul freddo pavimento in cemento dove i suoi figlio provano a farsi spazio su un piccolo materasso. “Prima almeno avevamo dei letti a Marawi”.
Lì vicino un uomo si affloscia su una sedia. Pieno di dolori inciampa. Due donne giovani gli si avvicinano per aiutarlo, ma molti altri evacuati li fissano. Il dolore e la sofferenza sono una vista comune qui.
Secondo l’ultimo bollettino dell’ONU nelle Filippine, il conflitto in piedi da tre mesi ha creato 360 mila dislocati dentro e attorno Marawi, dei quali molti sono lontani e vivono con parenti in altre città e province.
E’ una cifra che è maggiore del numero di residenti registrati a Marawi. E’ comune però in molte aree lontane delle Filippine avere popolazioni maggiori di quelle registrate. Una cifra che coinvolte persone che lavorano a Marawi senza esserne residenti.
“Particolarmente vulnerabili sono chi cerca rifugio nei centri di evacuazione da tre mesi” secondo il bollettino dell’ONU. Si dice che mentre molti hanno fatto sentire il desiderio di tornare a casa non possono perché i militari combattono ancora per scacciar gli ultimi militanti da Marawi, mentre molte aree sono ancora piene di mine ed altri oggetti esplodenti.
I militari hanno ripulito alcune aree al limiti della città ed hanno accompagnato i residenti là dopo che hanno ottenuto dei salvacondotti.
Ma non è facile ottenere il salvacondotto perché richiede di dover ritornare a Marawi. Per chi h perso tutto il viaggio è al di là delle loro possibilità.
“Non puoi ritornare perché non hai i mezzi per farlo. Non possiamo che aspettare qui” dice una giovane infermiera.
Mentre il conflitto si protrae l’accesso ai servizi sanitari per molti è sempre più urgente.
“Particolarmente vulnerabili sono chi è disabile e sta nei centri di evacuazione, dove ci sono barriere significative ai servizi sanitari essenziali, con limitate possibilità di cura specialistica e riabilitazione” si legge nel rapporto ONU.
Mentre la legge filippina comanda che gli edifici e le infrastrutture si debbano costruire per permettere la mobilità delle persone dislocate, la realtà è ben diversa. Molte strutture sono state costruite senza avere proprio in mente qualcosa del genere come nella povera Saguiaran.
“La valutazione dei bisogni complessivi ha rivelato che c’è un numero di persone disabili che non sono state identificate in modo appropriato e trascurate durante la registrazione delle Persone Dislocate internamente” h detto l’ONU. “Nessun governo o agenzia umanitaria raccoglie informazioni sui bisogni di persone con disabilità e persone vulnerabili compreso quelle con disabilità hanno difficoltà ad accedere ai bisogni essenziali”
http://www.benarnews.org/english/news/philippine/Marawi-IDPs-09022017131459.html