Lo stato Rakhine birmano brucia ancora una volta. Circa 270 mila Rohingya musulmani, per sfuggire alle operazioni di controinsorgenza portate avanti dai militari birmani, si sono rifugiati in Bangladesh da questa inquieta regione della Birmania Nordoccidentale.
L’offensiva militare è la risposta ad una serie di attacchi coordinati, lanciati nel distretto di Maungdaw il 25 agosto, contro una trentina di posti di polizia da circa un migliaio di militanti associati all’Esercito di Liberazione dei Rohingya del Arakan, ARSA, gruppo armato comparso per la prima volta lo scorso ottobre.
Le violenze hanno innescato il più grande esodo, ancora in corso, dei Rohingya della storia.
I militari birmani del Tatmadaw combattono una particolare guerra “contro il terrore”. Dopo l’inizio degli attacchi del ARSA, il governo ha ufficialmente dichiarato l’ARSA una “organizzazione terroristica”. Secondo il governo l’ARSA ha legami con i gruppi jihadisti come l’ISIS o Al Qaeda. Mentre non ci sono finora prove a sostegno, c’è una netta possibilità che questi gruppi possano entrare in gioco se la regione dovesse discendere in un caos maggiore.
La descrizione del ARSA come una creazione terroristica Rohingya aiuta la Tatmadaw a rilanciare la propria popolarità nel paese in un modo che era inimmaginabile prima. L’ala civile del governo, guidata da Aung San Suu Kyi, e la maggior parte della popolazione si stringe con i militari contro la minaccia estera di chi è descritto come Terroristi Bengalesi, senza spesso fare la distinzione chiara tra militanti e popolazione Rohingya in generale.
Se il termine terrorismo sia giusto nel descrivere l’ARSA, esso porta con sé delle forti connotazioni emotive, più intense nel mondo dopo 11 settembre. L’uso di questo termine legato ai Rohingya sembra più plausibile di prima, perché per la prima volta in decenni c’è un gruppo armato attivo Rohingya nel Rakhine.
ARSA o suoi elementi sembra aver preso di mira civili nello stato Rakhine nonostante le affermazioni della dirigenza ARSA di lottare contro le forze di sicurezza.
La nascita di questa “minaccia terroristica” è fino ad un certo punto una profezia scontata che covava da anni. La descrizione dei Rohingya come “terroristi” cercata da anni, molto prima che si formasse l’ARSA, e si è diffusa molto tra la popolazione locale Rakhine dopo le ondate di violenze settarie contro la popolazione musulmana nel 2012.
Questa, unitamente alle accuse di immigrazione clandestina dal Bangladesh e di “esplosione demografica” della popolazione Rohingya, stimata prima dell’odierno esodo attorno a 1,1 milioni di persone nello stato Rakhine, è uno dei principali elementi centrali alla loro demonizzazione.
I Rohingya hanno una storia di lotta armata, come gran parte dei gruppi etnici nel paese, il cui apice fu la Ribellione dei Mujahid dopo l’indipendenza nel 1948. Quell’insorgenza, però, fu sconfitta nel 1961, e altri successivi gruppi armati, come Organizzazione della solidarietà Rohingya, sono da decenni largamente inattivi.
I capi Rohingya da anni sostengono le strategie nonviolente per riprendersi i diritti della loro gente, coscienti che prendere le armi contro il Tatmadaw avrebbe causato un tremendo contraccolpo sulla popolazione civile.
ARSA avrebbe reclutato e addestrato giovani Rohingya da tre anni prima degli attacchi di ottobre, quattro anni dopo quella violenza settaria del 2012 che spedì oltre 140 mila Rohingya nei campi in Bangladesh senza una prospettiva di ritorno a casa.
Con la logica chiara di voler mantenere la pace tra le comunità musulmana Rohingya e la buddista Rakhine, il governo ha mantenuto una drastica separazione in molte aree dello stato che renderà difficile ogni possibile riconciliazione.
Fino a maggio 2015 molti Rohingya riuscirono a fuggire in Malesia ed Indonesia, mettendosi nelle mani di una mafia senza scrupoli di schiavisti. Ma quella via di uscita fu chiusa quando i governi malesi e thailandesi distrussero la rete criminale.
I Rohingya, privati anche di ogni minima possibilità di partecipare alla vita politica dl paese, non poterono votare alle elezioni del 2015. La vittoria alle elezioni di Suu Kyi e del NLD fece sorgere qualche speranza nella comunità Rohingya, ma il nuovo governo non ha portato un cambiamento positivo tangibile alle loro vite.
Il fascino del ARSA non è totale sulla popolazione musulmana nel Rakhine, ma l’assoluta mancanza di speranza fornisce la chiave di comprensione della adesione di tanti giovani ad una lotta che è destinata a fallire.
Il solo bagliore di speranza per i Rohingya è stata la commissione guidata da Kofi Annan, nominato nel 2016 da Aung San Suu Kyi, per indagare la situazione dello stato Rakhine e per dare le proprie raccomandazioni per un cambiamento politico. Le raccomandazioni erano contenute in un rapporto presentato solo poche ore prima che l’ARSA lanciasse il suo attacco lo scorso mese.
E’ difficile non pensare che l’ARSA non abbia voluto far coincidere il proprio attacco con il rilascio del rapporto. In una dichiarazione pubblica dopo gli attacchi, i militanti hanno affermato che il Tatmadaw aveva accresciuto la propria presenza militare nel distretto di Maungdaw, conducendo incursioni contro le aree Rohingya per far naufragare le raccomandazioni del rapporto.
Poi l’ARSA lanciò i propri attacchi per “difendere la gente senza speranza e noi stessi”. Secondo questa logica stramba, sembrerebbe che l’ARSA abbia condotto gli attacchi, che hanno fatto naufragare le raccomandazioni della commissione, per impedire che lo facesse il Tatmadaw.
Anche se non si conoscono le circostanze precedenti agli attacchi del ARSA, non li si può definire come “difensivi”. E mentre restano misteriosi gli obiettivi ultimi del comando del ARSA, non è concepibile che non abbiano previsto un contraccolpo brutale del tutto prevedibile contro la propria popolazione civile. Inoltre chissà se un tale contraccolpo non sia stato pure ricercato.
Forse c’è un solo contesto specifico in cui è possibile definire difensive delle chiare operazioni offensive e giustificare “per protezione” una mossa che condurrà la propria popolazione civile alla morte quasi certa: il contesto di un genocidio, un crimine che l’ARSA attribuisce al Tatmadaw.
Alcuni militanti e gruppi dei diritti umani hanno sostenuto che i Rohingya sono vittime di un “genocidio” portato avanti dallo stato birmano, una nozione che si è diffusa molto dopo il 2012. Il termine lo si usa sempre più nelle notizie dei media e lo si associa alla questione Rohingya.
La narrazione del genocidio si è radicata profondamente nella mete dei Rohingya stessi, sia in Birmania che nella diaspora. Al pari dell’accusa di terrorismo dalla parte del governo, il termine genocidio rende fortemente difficile una soluzione negoziata.
Alcuni sostengono che un genocidio a fiamma bassa sia iniziato attorno al 1978 quando il regime di Ne Win lanciò l’operazione Dragon King con l’obiettivo affermato di identificare gli immigrati clandestini dal Bangladesh. In quell’anno 250 mila Rohingya fuggirono in Bangladesh a causa della mano pesante dei militari, ma la maggior parte potè ritornare dopo alcuni mesi.
Da allora i Rohingya sono stati oggetto di politiche oppressive che sono state sempre più pervasive ma anche incostanti. Lo stato birmano ha agito sempre in modo opportunistica, talvolta provocando eventi ed altre volte reagendo ad eventi; talvolta usando i Rohingya come pedine politiche, come nelle elezioni del 2010 per contrastare i partiti nazionalisti Rohingya, e talvolta come capri espiatori.
I Rohingya sono stai le vittime di molti crimini contro l’umanità sponsorizzati dallo stato, al pari delle altre comunità etniche. Altri sono stati dirette contro i Rohingya in modo specifico, il più importante dei quali è l’apartheid, a cui sono soggetti da decenni, come alle politiche per ridurre il loro tasso di natalità. Hanno sostenuto vari scoppi di pulizia etnica come mostra la capitale dello stato Rakhine Sittwe, una città che ha cacciato la popolazione Rohingya cinque anni fa.
Le situazioni sul terreno, per quanto dure esse siano, tradiscono la nozione di genocidio.
Mentre in generale i Rohingya sono sempre delle vittime, le condizioni cambiano enormemente da un luogo all’altro. E non tutti i Rohingya sono vittime allo stesso livello; alcuni sono anche relativamente benestanti. La loro maggioranza vive nella miseria più abietta, come vivono la maggioranza dei loro vicini Rakhine, le cui vite non sono molto differenti nel secondo stato più povero del paese.
Mettendo insieme questi crimini non si giunge al genocidio, ma contribuisce a creare le condizioni in cui un genocidio, o anche una persino più brutale pulizia etnica, è possibile, ammesso che ci sia un fattore abbastanza forte che faccia apparire i Rohingya come una minaccia esistenziale alla Birmania. La nascita del ARSA potrebbe essere un tale fattore scatenante.
La tragedia che si svolge nel Rakhine aliena ancor di più i Rohingya che ancora vivono in Birmania. Sembra che gli schieramenti dello scontro si alimentano dei fuochi dell’altro: più saranno gli attacchi del ARSA più brutale la risposta del Tatmadaw e più cresce il sostegno popolare.
Più il Tatmadaw attaccherà i civili, più i giovani Rohingya saranno spinti nelle braccia del ARSA.
E’ difficile fare previsioni in una situazione estremamente volatile, ma la crisi Rohingya sembra raggiungere un punto di non ritorno.
Sia l’ARSA che il Tatmadaw sembrano camminare come sonnambuli che vanno a realizzare le loro peggiori profezie.
CARLOS SARDINA GALACHE, Asiatimes.com