Nel suo discorso molto atteso di fronte a 500 giornalisti e diplomatici, il consigliere dello stato birmano ha promesso di iniziare un processo di verifica dei rifugiati per protegger meglio i Rohingya ed ha ripetuto il rispetto del suo paese per i diritti umani.
La risposta niente affatto entusiasta dei suoi vicini asiatici al suo discorso indica il suo bisogno di appellarsi per avere un maggiore aiuto da loro e di lavorare più strettamente con i paesi colpiti dalla crisi.
In precedenza Suu Kyi ha parlato ad un forum pubblico sulle qualità di una transizione democratica effettiva che lei ha considerato in termini morali elevati. “Il passato è imparare le lezioni. La cosa più importante per noi è il presente. Pensate semplicemente: cosa si fa per la lotta della democrazia” ha detto Suu Kyi.
Comunque gli eventi dello stato Rakhine nel mese scorso indicano che il presente rappresenta un ostacolo alla lotta della democrazia della Birmania come è stato il passato. Nonostante tutti i suoi sforzi per rendere prioritario il processo di pace con i gruppi armati etnici, conflitti nuovi e più complessi con ramificazioni più vaste per la Birmania e la regione continuano ad ostacolare la transizione verso la democrazia fino a minacciarla.
Il dilemma di Suu Kyi è che, mentre il sostegno dei paesi esteri si basa sulla sua insistenza per il governo della legge come la base per il progresso democratico nel paese, il suo sostegno interno è ostaggio del sentimento ultranazionalista a favore di una espulsione forzata di oltre un milione di Rohingya dallo stato Rakhine che l’ONU teme sia un caso libresco di pulizia etnica.
Secondo i dati dell’ONU, è fuggita in Bangladesh quasi la metà della popolazione Rohingya dopo l’attacco da parte dell’ARSA dei posti di frontiera birmani il 25 agosto.
I particolari di quello che è avvenuto sono grossolani, ma testimonianze oculari non verificate fatte dagli impauriti profughi Rohingya che giungono in Bangladesh parlano di possibili atrocità commesse dalle forze di sicurezza per rappresaglia aiutate da bande di residenti buddisti.
La risposta pubblica di Suu Kyi è stata di insistere sul fatto che diritti umani e governo della legge sono rispettati ed osservati. L’opinione globale è rimasta sgomentata dalla chiara mancanza di preoccupazione per quello che il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres ha definito come tragedia umanitaria lungo la frontiera col Bangladesh.
In un’intervista al Nikkei Asia Review, Suu Kyi ha semplicemente detto: “Controlleremo, naturalmente. Non mi piace usare la parola indagine perché sembra come se metteremo sotto torchio la gente e chiederemo perché”.
Le analisi della risposta di Suu Kyi varia da chi considera, in modo ottimistico, che lei abbia fatto del suo meglio per tessere tra preoccupazioni internazionali e obblighi imposti dai sempre potenti militari a chi crede che semplicemente non sia ben informata della gravità della situazione nello stato Rakhine.
A chi le domandava in una intervista delle foto dai media dei villaggi Rohingya in fiamme ha risposto: “Ci sono fotografie di fumo che si gonfia, ma non sappiamo chi lo ha iniziato. E naturalmente non sappiamo affatto quando siano state fatte queste foto”
Se sia costretta a dire così oppure solo ignorante, ci sono pochi dubbi che la Suu Kyi ha perso quel manto di rispetto internazionale che aiutò a dare alla transizione birmana un significato e attenzione speciali. Questo rende persino più importante che la Birmania si assicuri che i vicini regionali siano sostenitori e diano un consiglio costruttivo. Sfortunatamente Suu Kyi non lo ha reso facile.
Lo scorso dicembre Suu Kyi rispose alla visita del ministro degli esteri indonesiano Retno Marsudi tenendo un ritiro speciale a Naypyidaw sulla questione Rakhine da parte dei ministri degli esteri del ASEAN. Nonostante gli sforzi diplomatici di Retno, Suu Kyi ha escluso un altro incontro speciale. La Birmania ha insistito che l’incontro dei ministri degli esteri del ASEAN all’assemblea annuale dell’ONU eviti di scegliere di guardare alla situazione nello stato Rakhine.
L’ASEAN è diviso sul come gestire la situazione dello stato Rakhine. Malesia ed Indonesia, i due stati membri con la maggiore popolazione musulmana del ASEAN, hanno espresso profonda preoccupazione ed hanno mobilitato velocemente la consegna di aiuti ai rifugiati Rohingya in Bangladesh. L’Indonesia è incline ad esser più costruttiva ma i rappresentanti malesi hanno chiesto l’espulsione della Birmania dal ASEAN.
Le Filippine, che detengono la presidenza di turno dell’associazione e fondamentali per l’azione di coordinamento, sono rimaste in silenzio, sebbene i rappresentanti in Manila insistono nel dire di condurre consultazioni in silenzio tra i paesi membri.
Se si considera la scala della tragedia umanitaria, gli ex rappresentanti del ASEAN sono inorriditi per il livello di divisione ed inazione, indicando che nonostante mezzo secolo di buona gestione della sicurezza l’associazione regionale resta moltissimo la somma delle sue parti. Dopo quasi un mese di crisi non c’è stata una dichiarazione della presidenza ad esprimere preoccupazione.
Così come la Birmania potrebbe essere grata per l’assenza di una pressione concertata da parte dei suoi vicini, l’impotenza del ASEAN è di poco aiuto per Suu Kyi. Approfondisce il suo dilemma.
Da un lato il sentimento dei musulmani estremisti in Indonesia e Malesia fornisce aiuto alla resistenza dei Rohingya rafforzando le paure dei nazionalisti buddisti. Dall’altro canto, l’inabilità degli altri stati a far entrar la Birmania in una discussione regionale costruttiva intralcia le soluzioni regionali possibili per l’esodo Rohingya. La maggioranza delle agenzie umanitarie si attendono prima la fame e poi le malattie, seguite nei prossimi mesi, da un esodo di rifugiati via mare dalla Birmania.
Questo lascia la Birmania esposta agli interessi dei suoi maggiori vicini, Cina e India. I due paesi hanno sostenuto, in modo prevedibile, l’approccio duro che la Birmania ha preso contro quello che è stata definita minaccia terroristica che ha acceso l’ultima crisi. Né Pechino né Dehli sono state veloci nel riconoscere la scala della tragedia umanitaria che ha spostato centinaia di migliaia di persone nel giro di qualche settimana.
La dichiarazione iniziale di Dehli dopo lo scoppio della violenza si è attenuta sulla “violenza e gli attacchi dei terroristi” nello stato Rakhine esprimendo tristezza per “la perdita di vite umane tra le forze della sicurezza birmana”. Solo dopo il rivelarsi completo della tragedia umanitaria il tono è cambiato diventando una supplica a trattare la situazione con “maturità e ritegno”.
Inizialmente anche Pechino si è attenuta alla minaccia della sicurezza, sebbene il ministro degli esteri cinese Wang Yi abbia detto che era “imperativo ridurre le tensioni, evitare di danneggiare le persone innocenti e prevenire la diffusione di una tragedia umanitaria”.
L’orgogliosa tradizione birmana di una forte indipendenza, colorata da secoli di esposizioni ad invasioni da est e da ovest, potrebbe inibire la ricettività all’aiuto esterno.
Ma le lezioni delle tragedie umane in luoghi come la Cambogia e in Indonesia suggeriscono che è meglio accettare l’aiuto dei propri vicini che attendere il giudizio del mondo con le sue sanzioni dolorose e controproducenti da sopportare.
Michael Vatikiotis AsiaNikkei