Il Giappone, da maggior paese donatore in Birmania, può fare pressioni sul governo birmano affinché fermi la repressione contro i Rohingya ed inizi con loro un dialogo.
La crisi birmana sulla tragedia dei Rohingya musulmani causa una grande agitazione politica nella regione. Il mese passato la crisi ha raggiunto un nuovo picco. Nella ritorsione conto lo stato birmano il 25 agosto i militanti Rohingya attaccarono oltre trenta posti di polizia e militari, generando una repressione ancora più grande sui Rohingya stessi.
Il governo birmano è da tempo accusato di commetter delle pulizie etniche contro i Rohingya. La situazione li ha spinti o a fuggire dal luogo in cui sono nati o a rispondere alle forze di sicurezza. Alcuni sono andati in Bangladesh ed alcuni sulle coste thailandesi, dove è negato loro senza alcuna pietà l’ingresso e e sono respinti in mare con pochissime considerazioni umanitarie.
I Rohingya sono un gruppo di minoranza etnica musulmana che vive nella parte occidentale dello stato Rakhine, già Arakan. Secondo varie statistiche oltre 140 mila persone su un totale di 1 milione di persone sono state costrette a vivere in campi di rifugiati dopo vari conflitti con la maggioranza buddista birmana. Circa 100 mila sono da allora fuggiti per scappare la violenza sistematica e la persecuzione.
Fino ad ora il governo birmano ha rifiutato di riconoscere i Rohingya come un gruppo etnico della Birmania. Quindi i Rohingya sono diventati “entità apolide” e non hanno alcuna protezione legale dal governo. Vittime di questa politica di alienazione etnica, i Rohingya sono percepiti dalle autorità come meri intrusi dal Bangladesh che non hanno spazio nella società a maggioranza buddista.
Aung San Suu Kyi, il capo di fatto del paese, è criticata per la sua indifferenza verso i Rohingya. Ad aprile negò nettamente la pulizia etnica verso molti Rohingya; il mese successivo rigettò un’inchiesta dell’ONU per i crimini contro i Rohingya. Nel suo ultimo discorso di settembre si chiese perché tanti Rohingya musulmani fossero fuggiti quando altri vivevano pacificamente nello stato, facendo intendere che i piantagrane fossero gli stessi Rohingya.
Nel contesto del ASEAN la questione non è stata mai seriamente affrontata dalla Birmania e dagli altri stati colpiti dall’esodo dei Rohingya. Mentre ASEAN parla a iosa di costruzione della comunità, questa crisi ha gettato dubbi sulla capacità del gruppo regionale a gestire le questioni della emigrazione e della cittadinanza.
Mentre l’organizzazione ha fatto progressi in termini di rafforzamento dell’organizzazione, è chiaro che il gruppo manca dei meccanismi e dei fondi per affrontare questa sfida. Infatti l’ASEAN è sempre stata reattiva, risponde ad una crisi senza alcuna pianificazione preventiva. Lo tsunami del 2004 e il ciclone Nargis del 2008 dimostrarono come ASEAN fosse mal posta a confrontarsi con grandi crisi umanitarie.
La Commissione intergovernativa per i diritti umani, AICHR, è anche in secondo piano di fronte alle sofferenze che ci sono. Sebbene si supponga che esista per proteggere i diritti umani nel ASEAN, è rimasta per lo più impotente. La crisi dei Rohingya dovrebbe essere la grande opportunità per dimostrarsi all’altezza del momento confermando il proprio impegno per la difesa dei diritti umani fondamentali.
Emerge una domanda fondamentale: AICHR o l’ASEAN vogliono ora confrontarsi con la Birmania su questo argomento difficile?
Oltre al ASEAN si deve valutare il ruolo delle potenze regionali. In primo luogo il Giappone è un caso di studio pertinente. Senza dubbio il Giappone è ancora uno dei paesi donatori maggiori di aiuto estero per la Birmania. Dovrebbe perciò trovarsi nella posizione di fare pressioni sul governo birmano affinché fermi la repressione contro i Rohingya ed iniziare con loro un dialogo.
Da quando la Birmania iniziò la riforma politica, portando alle prime elezioni dopo 20 anni, il Giappone ha sostenuto il processo democratico. Sono stati cancellati debiti per il valore di miliardi di yen e furono offerti prestiti per 100 miliardi da investire in grandi progetti di miglioramento delle infrastrutture in Birmania.
Ian Munroe ha scritto sul The Japan Times che parte delle donazioni del Giappone all’ONU che opera in Birmania sono giunti nelle mani dei Rohingya. Ma è un aiuto finanziario di assistenza minuscolo. Il Giappone essenzialmente presta più attenzione ai legami col governo birmano come parte chiaramente della sua strategia di contenimento della crescente influenza della Cina in questo stato del sudestasiatico.
Vari anni fa il Giappone nominò Yohei Sasakawa, presidente della Nippon Foundation, come inviaot speciale per la riconciliazione nazionale in Birmania. Sebbene l’intenzione fosse di ricostruire una società politica pacifica coinvolgendo tutti i gruppi etnici al processo politico, i Rohingya furono lasciati fuori.
L’alienazione dei Rohingya è stata incoraggiata da alcune parti in Birmania. L’esercito Birmano, il Tatmadaw, ha usato da tempo i Rohingya per manipolare la pubblica opinione e allontanare l’attenzione dagli altri problemi del paese.
Questo spiega perché il sentimento antimusulmano si è mantenuto in Birmania. E’ anche possibile che questa stessa tattica è usata da Suu Kyi e dai militari nello spostare nel tempo risoluzioni di altre questioni politiche a spese dei Rohingya presi di mira come un fastidio politico.
E’ vero che la pressione internazionale, compresa quella che viene dal Giappone, non potrà contribuir molto all’allentare la crisi in corso dei Rohingya. La Birmania ha provato che tanti anni di sanzioni internazionali furono inefficaci finché c’erano altre potenze per la la propria legittimazione. La Cina in questo caso fornì quello spazio vitale alla Birmania sotto gli anni di dittatura militare.
Ma il Giappone può iniziare ora, parlando apertamente dei Rohingya e di cosa si aspetta dal governo birmano. L’aiuto finanziario dal Giappone può esser impiegato per controllare certi comportamenti. Sarebbe un segnale forte da Tokyo, un segnale di rigettare la legittimità della Birmania nel trattare la questione Rohingya.
Pavin Chachavalpongpun, TheJapanTimes