Nell’ultima eruzione del Monte Agung a Bali nel 1963 morirono oltre 1300 persone. Il getto piroclastico, una miscela in rapido movimento fatta di gas e materiale vulcanico, devastò i villaggi indonesiani attorno al vulcano. Il tempio madre di Besakih fu l’unico ad essere salvato dalla lava che si fermò a qualche metro.
Dal 21 settembre l’isola è presa nella morsa di paure molto simili che hanno causato la fuga degli abitanti dai villaggi. Nei 471 centri di evacuazione sono dispersi 150 mila persone.
Il primo di ottobre, siamo andati alla periferia di Gianyar, a 60 chilometri dal Monte Agung per visitare un centro di evacuazione finanziato da privati, vicino allo stadio comunale. Sui gradini della sala comunale trasformata in campo profughi abbiamo incontrato Nyoman Gerti, una nonna di 52 anni di cinque nipoti del villaggio di Abadi sul pendio del Monte Agung.
Questa donna pienotta e allegra ci ha detto:
“Il 21 settembre sentimmo la prima scossa nel pieno della notte. Mi svegliai e afferrai i nipoti. C’era caos. Tutti scappavano dalle case. Chi ricordava l’eruzione del 1963 diceva di stare lontano dai fiumi, di stare vicino ai punti più elevati per salvarsi. Mi rifiutai di tornare a dormire in casa. Ma, due o tre volte al giorno, continuavano a tornare i tremori del suolo. Non riuscivo a dormire, a concentrarmi o a mangiare. Così due giorni dopo ci siamo spostati qui. Ho paura per la casa, ma riesco a riposarmi facilmente sapendo che siamo molto lontani dal vulcano.”
Stranamente ci sono pochi uomini giovani al centro. Ibu Nyoman ci spiega:
“Le nostre famiglie sono divise. Mio marito ed i figli sono nel villaggio. Custodiscono quello che abbiamo lì e hanno cura degli animali. Le donne ed i vecchi sono qui con i bambini dove è sicuro”.
Incuriosito, domando se questo è il caso generale. Tutte le donne presenti alzano le mani.
Mentre tutti parlano dell’impatto sul turismo a Bali, molti hanno ignorato le migliaia di persone abili restate nella zona di pericolo per accudire gli animali.
Ibu Nyoman ha citato le due vacche ed un vitello, dieci maiali e le galline. Ogni vacca vale 700 euro e i maiali 70 euro l’uno. “Valgono troppo per essere lasciati da soli. Sono il nostro sostentamento. Se li perdiamo non ci resta nulla” dice la donna.
“E’ troppo pericoloso per ritornare. Ogni giorno ci sono tre o quattro scosse. I più giovani possono andarsene velocemente in moto se succede qualcosa”.
Le chiedo se le mancano i suoi uomini e risponde stoica: “Accade spesso… Di solito i miei figli che lavorano in campagna vanno nelle città e ritornano solo dopo una decina di giorni”.
La situazione di oggi è l’ironia inversa con le donne in città e gli uomini a casa.
Ma per Ibu Nyoman la vita, anche prima di questa emergenza, non era affatto idilliaca.
“L’elettricità è arrivata al nostro villaggio solo sette anni fa. Prima usavamo ancora le lampade ad olio. Non ci sono strade asfaltate, solo tratti di cemento”.
Ibu Nyoman gestisce un negozietto assortito nel suo villaggio. Guadagna di media un euro al giorno.
“Talvolta ho abbastanza per nutrire tutti. Altre volte lascio mangiare i nipoti. La situazione economica è di fatto peggiorata dai tempi di mio padre: non c’è lavoro nel villaggio”.
Nonostante gli stenti di ogni giorno, Ibu Nyoman si illumina quando parla della sua nipote diciassettenne Putu Dobriani.
“Sua madre, mia figlia, è morta di cancro alla gola quando la figlia aveva solo tre anni. Da allora l’ho cresciuta come se fosse mia. Non so leggere o scrivere. Mio padre era un religioso e stava sempre al tempio e non aveva soldi per mandarmi a scuola. Con Dobriani ero determinata a darle un’istruzione. Ora è nella scuola superiore. E’ la prima nella famiglia a farlo. Va con la sua moto a scuola tutti i giorni e quando finirà vuole lavorare in un hotel. Il suo sogno è di comprarsi un laptop.”
Ma l’eruzione del Monte Agung potrebbe cancellare quel po’ di progresso fatto.
Infatti, più tardi in quello stesso giorno, quando tornammo per trovare i suoi due figli vigorosi ci sussurrarono, come se non volessero infastidire la madre, che erano stati costretti a vendere il bestiame ad un prezzo troppo basso .
Ibu Nyoman rimase sconvolta dalla notizia: “Non capisco perché ciò accada. Fose Dio è arrabbiato perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato? Forse perché sono le miniere? Devono dare fastidio alla natura. Forse perché scalano sempre lamontagna e le mancano di rispetto? Non so neanche se o quando erutterà. Ci sarà un rituale per la luna piena il 3 ottobre. Volevo ritornare ma mio figlio mi ha detto che è troppo pericoloso. E’ la luna piena più importante dell’anno. Sono davvero delusa.”
Per gli abitanti di Bali la vita gira intorno alle preghiere. I credi ed i rituali sono incastonati nel loro senso di bilancio nel mondo. Cancellare o spostare un grande rituale è una cosa grave, un affronto a Dio.
“Voglio pregare per la salvezza, per il futuro della mia famiglia. Spero che se prego abbastanza Dio avrà pietà di noi”.
Eppure non riesco a fare a meno di pensare che ci sono soluzioni più di questa terra ai problemi dell’isola.
Bali si riprenderà, come ha fatto dopo tanti disastri naturali e umani. La resilienza della sua gente ci penserà.
Ma i suoi capi devono anche pensare al futuro.
Il turismo a Bali gode di una crescita di 20% all’anno. Lo scorso anno 4,4 milioni di turisti sono giunti in questa isola di induisti. Il risultato è stato un rapido sviluppo con decine di alberghi che spuntano ogni anno.
Ma i benefici economici non ricadono ugualmente su tutti. Mentre la parte meridionale dell’isola scoppi per le ondate di visitatori, i villaggi del lontano settentrione come Ababi sono stati dimenticati.
Si deve affrontar questo sbilancio. Una iniziativa fondamentale, dopo che tutto si sarà sistemato, sarebbe di far rivivere i piani vecchi di aprire un aeroporto a nord. Questo sarà più vicino alla città di Singaraja e allenterà la congestione all’aeroporto di Ngurah Rai a sud, diffonderà i benefici del turismo al trascurato ma bellissimo ed innocente settentrione dell’isola.
Karim Raslan, SCMP