Prima l’abbiamo creata, poi l’abbiamo abbattuta. Per oltre venti anni Aung San Suu Lyi era, al pari di Nelson Mandela e Martin Luther King, una delle figure morali esemplari del nostro tempo. Adorata ed osannata nel mondo e destinataria di quasi tutti i premi e i riconoscimenti della comunità internazionale dei diritti umani, era più un idolo scolpito nella pietra che una persona, un totem di valori democratici ed di opposizione di principio alla tirannia.
Ora almeno agli occhi del mondo occidentale, gli ultimi eventi in Birmania hanno fatto cadere dal piedistallo The Lady, il nome secondo cui è conosciuta dai suoi ammiratori.
La caduta drammatica di Aung San Suu Kyi la si deve alla feroce campagna di pulizia etnica che è diretta contro i Rohingya, una minoranza in gran parte musulmana nell’occidente birmano.
Il Premio Nobel è stata attaccata per aver detto poco, e fatto anche meno, per condannare una campagna diretta dai militari di incendi e violenza che ha condotto oltre 400 mila persone oltre il confine nel Bangladesh in meno di un mese.
Mentre l’esercito birmano metteva a ferro e fuoco le comunità Rohingya, esperti, giornalisti e attivisti dei diritti umani chiedevano che fosse tolto il premio Nobel e altre chincaglie dei riconoscimenti internazionali ad Aung San Suu Kyi. Il suo ritratto è stato tolto dalle pareti dell’Oxford University. L’icona un tempo democratica è descritta come “apologeta del genocidio, della pulizia etnica e dello stupro delle masse”.
Il fervore dei detrattori di Aung San Suu Kyi ci dice molto di noi come di lei. La rabbia infatti sembra sgorgare meno dalle sue azioni, o dalla loro, quanto dal suo rifiuto cocciuto di assolvere al ruolo salvifico assegnatole dalla comunità internazionale.
Come ha detto Gavin Jacobson sul The New Yorker, il tenore delle denunce porta il tono tipico del tradimento personale, come se anni di investimenti nella promessa di Aung San Suu Kyi fosse culminata nella bancarotta di uno schema Ponzi morale. Jacobson sostiene che Aung San Suu Kyi “ha mostrato la semplicità con cui molti in occidente hanno ridotto una personalità complessa in una Rapunzel orientale.”
Tutto questo comunque rimanda ad una domanda più essenziale del perché, in primo luogo, l’abbiamo costruita. Perché governi occidentali, media, militanti investano così grandi speranze in un singolo e fallibile individuo?
Fino ad un certo punto è facile capire questa mitizzazione di Aung San Suu Kyi. La sua vita traccia un arco romantico dalla Valle di Oxford al palazzo dell’ONU a New York, alla casa familiare in rovina sulle rive del lago Inya a Rangoon, dove come un personaggio di Gabriel Garcia Marquez è vissuta per 15 anni agli arresti domiciliari.
Riverita dai cittadini birmani, per quanto per ragioni diverse, Aung San Suu Kyi ha offerto il paravento perfetto ai maligni militari birmani la cui repressione sanguinosa della manifestazioni del 1988 lasciò centinaia di morti. Negli anni successivi la vita di Suu Kyi assunse tutte le qualità della una favola morale di una figlia bellissima di un eroe nazionale assassinato che sacrifica la propria libertà per salvare il proprio paese dalla tirannia.
Eppure ci sono altre cose nella costruzione dell’eroina birmana. Ad un livello più profondo sembrava un risultato della convinzione, incastonata nel movimento globale dei diritti umani e in gran parte dei media occidentali e della elite politica, che il mondo si muove inesorabilmente, anche se a scatti, nella direzione dei valori liberali. Non è una coincidenza forse che Aung San Suu Kyi ricevette il premio Nobel nel 1991, nell’anno della caduta del regime sovietico e del trionfalismo liberale che ne seguì.
Questo ottimismo fu meglio articolato da Francis Fukuyama che nel suo articolo “La fine della storia?” affermò che la vittoria occidentale della Guerra Fredda segnava “il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità e l’universalizzazione della democrazia liberal occidentale come forma finale del governo dell’uomo”
Coincidenza o meno, l’hegelismo del mercato di massa di Fukuyama ebbe un eco forte nella favola che crebbe attorno alla Signora. L’Aung San Suu Kyi birmana non era un politico semplice, ma una figura storica mondiale che avrebbe cancellato l’odiata giunta militare e condotto la sua gente verso la terra promessa della democrazia liberale e i diritti umani. Nel tempo abbiamo innalzato Suu Kyi così in alto da farla uscire al di sopra della realtà politica del suo paese.
Il bisogno di creare degli idoli politici, come tante altre cose, inizia con le buone intenzioni: un desiderio di riconoscere chi si solleva contro l’oppressione e la tirannia nel mondo. Ma il processo ha sempre delle distorsioni. Si prenda Mandela.
Mentre la venerazione globale di Mandela servì ad attrarre l’attenzione sulla crudeltà e il razzismo dell’apartheid sudafricano, ebbe anche l’effetto di rimuovere la natura radicale della sua politica e la sua volontà ad usare metodi violenti per raggiungere mete politiche. Nella trasmutazione da politico a santo, la figura complessa e rivoluzionaria fu ridotta a significante semplice della giustezza morale, emblema del cambiamento politico, meno la politica.
In modo simile, la beatificazione di Aung San Suu Kyi ha incoraggiato una pericolosa semplificazione delle realtà politiche del suo paese. Se la si vede attraverso la lente della sua storia personale, le complessità etniche e politiche erano appiattite in una lotta a due tra chi ama la libertà ed una cricca di generali malvagi, una visione che gli ultimi avvenimenti mostrano essere stata troppo ingenua.
In verità il governo militare era un sintomo dei problemi della Birmania come la loro causa. Sin dal momento dell’indipendenza dal Regno Unito nel 1948, il paese è stato sempre in uno stato di quasi costante guerra civile tra il governo centrale, dominato dall’etnia birmana, ed una serie di popolazioni di minoranza che occupavano le parti esterne del paese.
Dopo che la Tatmadaw prese il potere nel 1962, il governo militare ed il conflitto etnico si infiammarono a vicenda. La dura repressione della giunta alimentava il desiderio delle minoranze della autodeterminazione che, a sua volta, rafforzava l’affermazione perenne del Tatmadaw secondo cui esso, ed esso solo, poteva tenere insieme il paese.
Come notò la politologa Mary Callahan, il governo pretoriano era una risposta, per quanto crudele e destinato a fallire, ai problemi secolari della costruzione dello stato in regioni periferiche della Birmania che non erano mai state sotto l’effettivo controllo centrale.
La beatificazione di Aung San Suu Kyi era pericolosa anche per altre ragioni. Mentre fu efficace nel raccogliere il sostegno internazionale contro i generali al governo in Birmania, dava anche loro una facile via di uscita verso la legittimazione. Nel 2010 Aung San Suu Kyi era giunta a simboleggiare la Birmania agli occhi dei politici occidentali tanto che tutto ciò che la giunta dovette fare era trovare un modo per cooptarla, cosa che fecero.
Cominciando con il rilascio sorprendente di Aung San Suu Kyi dagli arresti domiciliari il 13 novembre del 2010 l’apertura del paese al mondo coinvolse un uso conscio e furbo del suo status di eroina globale. Per iniziare il suo rilascio ebbe l’effetto di legittimare un’elezione nazionale profondamente falsa tenutasi solo una settimana prima, trasformando il regime militare in un governo quasi civile, pieno di uomini dell’esercito e guidato dal generale in pensione, Thein Sein.
In seguito, l’elezione della Suu Kyi al parlamento attraverso elezioni suppletive del 2012, accrebbe un’ulteriore riabilitazione dell’immagine internazionale della Birmania. I governi occidentali, euforici di fronte all’ascesa da favola della Signora, allentarono e abbandonarono le sanzioni; l’aiuto internazionale, giornalisti e investitori accorsero in Birmania.
Ci furono miglioramenti concreti a livello di strada: si dissipò la paura, la gente dopo tanti anni parlava apertamente di politica e le foto di Suu Kyi, un tempo vietate, apparivano dovunque.
Le elezioni del 2015 videro questa eccitazione rivissuta ad un livello nazionale quando il partito NLD vinse in modo schiacciante contro i fantocci dei militari del USDP.
Ma questo apparente lieto fine nascondeva il fatto che era poco cambiato in termini di chi davvero ha il potere effettivo. Salendo al potere nell’aprile del 2016 l’autorità di Aung San Suu Kyi era fortemente costretta da una costituzione dei militari che preservava un ruolo speciale ai militari.
Essa riservava un quarto dei seggi in parlamento a candidati prescelti dai militari dando potere di veto all’esercito sui cambiamenti costituzionali, e garantiva il controllo dei militari su tre ministeri, la difesa, gli interni e affari di frontiera.
E per impedire che Suu Kyi non si facesse prendere la mano, posero la clausola costituzionale che le impediva di diventare presidente per il suo matrimonio con uno straniero.
Il profilo globale di Suu Kyi era cruciale a questo processo a stadi di riforma. Tirandola fuori dagli arresti domiciliari e portandola nella stanza del potere, il Tatmadaw e i suoi alleati riuscirono a liberarsi dello stato di Paria della Birmania ed assicurarsi la rimozione delle sanzioni occidentali, cedendo in effetti poco potere reale.
Fu un atto di gioco di prestigio politico, reso possibile dall’investimento della comunità internazionale in un certo racconto roseo sulla Birmania.
Aung San Suu Kyi, più testarda dei suoi ammiratori all’estero, sembra essere entrata in questo accordo senza illusioni. Dal su rilascio nel 2010, ha ripetutamente affermato di considerarsi non un’eroina ma un politico, disponibile ad alleanza pragmatiche e a compromessi per raggiungere i suoi obiettivi. Questa fu probabilmente il ragionamento, per quanto fallace, dietro la decisione del suo partito di non schierare candidati musulmani alle elezioni del 2015, per la paura che avrebbe alienato gli etnici birmani che costituivano la massa del sostegno al NLD.
Spiega anche il suo silenzio sulla questione dei Rohingya che sono largamente disprezzati dalla popolazione etnica birmana. Mentre lo stato Rakhine brucia, il Premio Nobel resta concentrata sulla revisione della costituzione per dare al suo partito il pieno potere che crede di meritare, al servizio di un obiettivo più vasto che ha eluso la vecchia giunta: creare una Birmania pacifica ed unita.
In questi calcoli politici i Rohingya sono danni collaterali, ignorati o odiati da quasi tutti i cittadini birmani, compreso forze democratiche che lottarono contro la giunta da così tanti anni.
Se ci deve far soffermare qualcosa, è lo spettro di Aung San Suu Kyi e dei suoi sostenitori fianco a fianco con i militari a cui si opponevano un tempo, uniti nella loro idea che i Rohingya sono immigrati clandestini che non hanno un posto nella comunità nazionale della Birmania.
Il contraccolpo in occidente contro Aung San Suu Kyi riflette una disillusione sulla sua volontà di affrontare circostanze politiche complesse e contraddittorie in cui si trova e forse ad un certo punto per lo stesso processo politico stesso. Non si vuole scusare i suoi gravi errori. Ma la caduta drammatica di Aung San Suu Kyi ci deve ricordare soprattutto dei pericoli della mitizzazione politica e del farsi sedurre fino a credere che problemi difficilissimi possano essere superati come per magia.
La favola di Aung San Suu Lyi ci dice che, prima di tutto, sarebbe più saggio resistere alla costruzione degli idoli.
Sebastian Strangio, The Nation