In vari giorni di quel giugno 2012, quel villaggio ed altri vicini nello stato Rakhine erano stati una fonte per la folla di buddisti che, armati di mazze, machete e taniche di benzina, ridussero in macerie un quartiere essenzialmente musulmano al centro di Sittwe.
Il giovane, che aveva una ventina d’anni quando ci incontrammo, non era lì quando successero gli attacchi. Ma sapeva di molti suoi vicini che erano saliti sui bus che trasportavano le folle a Sittwe, dove rasero al suolo le case dei musulmani mandando migliaia di musulmani Rohingya nei campi di dislocazione, e lui simpatizzò con quella decisione.
Il suo amico di un tempo aveva da tempo interrotto i suoi viaggi nel villaggio, e non aveva desiderio di riaccendere quella relazione. Gli chiesi la ragione.
“Ha un sangue differente” disse del ragazzo Rohingya che vendeva riso al mercato locale, e che in qualche occasione restava presso la casa dell’uomo. “Non credo che sia una persona malvagia, ma anche se non lo è, la sua etnia lo è”
Quegli eventi del 2012 avevano compreso la prima ondata di violenza tra buddisti e musulmani che colpì la Birmania con la transizione dal governo militare, e terminarono con la quasi completa segregazione delle due comunità della Birmania occidentale. Vari mesi dopo nel 2012, avevo intervistato molti Rohingya musulmani nei loro rifugi nei campi.
Ma né io né la maggioranza degli giornalisti che si erano recati lì avevano trovato del tempo per ascoltare l’altra parte, quei buddisti Rahkine che avevano commesso gran parte della violenza, ma che avevano anche ricevuto, benché in quantità minore, attacchi dei Rohingya.
A quel tempo quali fossero le forze, interne ed esterne, che avevano spinto le folle buddiste a commettere atrocità di quella scala erano rimaste una questione di speculazione.
Pensai a quel giovane quando alla fine di agosto cominciò il ripetersi di un’altra iterazione ancora più tumultuosa di quella violenza. A settentrione di Sittwe, in un angolo di terra della grandezza dell’isola di Long Island, sono stati incendiati 200 villaggi ed oltre mezzo milione di Rohingya si sono spostati in Balgladesh, scappando ad una indiscriminata campagna militare iniziata come risposta agli attacchi Rohingya contro le posizioni della sicurezza.
La testimonianza dei rifugiati di esecuzioni sommarie, stupri di donne da parte dei militari ha scioccato, ma ha anche innescato la derisione e l’incredulità contro le loro affermazioni in una vasta sezione della società birmana. Questo proviene non solo dallo stato Rakhine dove l’antagonismo delle comunità è profondo ma in tutto il paese, e non solo alla base ma anche nei luoghi alti.
“Guardate queste donne” disse in tono di denigrazione un ministro della sicurezza di frontiera di recente quando gli si chiese degli stupri di massa. “Chi vorrebbe stuprarle?”
Il sostegno popolare in Birmania per la campagna militare ha messo in mostra un pregiudizio violentemente sciovinista contro i Rohingya. La forza e la quasi generale diffusione di questo sentimento ha irritato la semplicistica comprensione occidentale delle frizioni etniche e religiose che da tempo esistono in Birmania, ma che erano state nascoste dal governo militare e dalla tendenza a vedere il panorama politico birmano in termini binari: una società apparentemente unificata nella sua virtuosa opposizione al governo militare.
Per provare a capire quello che spinge questo modo di pensare collettivo della maggioranza della popolazione, fatta di differenti comunità con altri conflitti di interesse, apparentemente unite dietro la campagna di pulizia etnica, ritornai alla mia conversazione col giovane.
Non era perché quel ragazzo Rohingya che un tempo conoscevo era stato complice degli attacchi contro i Rakhine buddisti. Sapeva che non era il caso. Piuttosto, era che tutti i Rohingya erano visti come agire all’unisono, l’individuo sempre al servizio del gruppo.
Questa incapacità a separare uno dall’altro ha fornito il mortale ragionamento per la violenza di massa in tutto il mondo, ed ha formato una colonna centrale della propaganda diretta contro i Rohingya dagli attacchi dell’insorgenza di agosto.
Sui media sociali sono circolati i disegni di bambini Rohingya armati di machete a segnalare la credenza di una malevolenza innata che aveva avuto l’effetto di cancellare ogni distinzione tra giovani e vecchi, violenti e non violenti. Non importava più al giovane che l’amico come un individuo non aveva fatto nulla di male. “Il gruppo è cattivo”.
Lo stato mentale che sottende a questa posizione si è evoluta, oppure è stata in parte alimentata, ad un altro sviluppo in Birmania. Considerarli puramente come frizioni storiche che trovano ora nuovo spazio per esprimersi significa non guardare i processi messi in moto dalla polarizzazione delle comunità che seguì la violenza del 2012, come pure la transizione politica stessa.
Insieme alle tensioni profondamente locali nel Rakhine e le asserzioni militari della supremazia etnica e religiosa, il sostegno popolare alle le ultime ondate di violenza contro i Rohingya è legato alla paura, reale ed immaginaria, di quello che la democratizzazione porterà.
Il ritirarsi da parte delle due comunità in enclavi separate dopo il 2012 ha dato forza ad un consenso in ogni comunità su chi fosse l’altro e quali fossero le sue intenzioni. Questo ebbe un profondo effetto di riforgiare il significato del precedente scoppio di violenza.
In questa atmosfera, persino banale, le dispute di vicinato come per la terra, che avevano sempre sostenuto le tensioni in quella parte di Birmania, presero immediatamente il loro posto in una narrazione universale dell’invasione e conquista musulmana.
I Rohingya sono largamente creduti immigrati clandestini del Bengala laddove i buddisti Rakhine si considerano i figli ereditari delle pianure costiere. Qualunque affermazione di diritti, politici o economici da parte Rohingya, e quindi a maggior ragione di violenza, è interpretata come una sfida per diluire l’identità etnica dello stato Rakhine e del buddismo in generale.
Questo potrebbe aiutare a piegare il curioso paradosso birmano di una democrazia che avanza e del peggioramento della violenza. Quasi sette anni dopo che i militari hanno ceduto il potere diretto, e 18 mesi di governo pseudo civile, una campagna di pulizia etnica ha ricevuto il sostegno popolare.
Questo fenomeno non si limita allo stato Rakhine ma risuona ben oltre persino tra le comunità che hanno avuto pochissimi, se non alcuno, contatti con i Rohingya.
L’antropologo Arjun Appadurai scrisse una volta che “grandi sceneggiature” immesse nella comprensione locale di un conflitto giocano nella formazione delle percezioni di quel conflitto in tutta la società. Il risentimento che sottende alla violenza potrebbe essere restato confinato per lo più nel Rakhine, ma gli attacchi recenti dei militanti Rohingya hanno messo in mostra la cospirazione islamica che inizia oltre i confini nazionali minacciando di penetrare profondamente.
La principale divisione settaria nella Birmania occidentale poteva esser stata di etnicità ma il modo in cui lo stato ed i media sociali hanno spinto senza freno la dimensione religiosa del conflitto ha avuto un peso portante su chi, al di là dello stato Rakhine, ha manifestato in favore.
Per molti in Birmania la democratizzazione ha chiaramente i suoi pericoli a cui i militari accennano sempre. Durante la loro dirigenza decennale del paese, i generali hanno ristretto i diritti del cittadino fino al punto che i diritti stessi sembravano finiti.
In una nazione divisa dalle etnie, dove alcuni gruppi sono più privilegiati di altri ma tutti senza voce politica la strategia dei militari inevitabilmente faceva sorgere la paura che al rafforzamento di una comunità sarebbe seguito la perdita di potere di un’altra.
Ci potrebbe anche essere una potente spinta sciovinista, ideologica negli ultimi eventi, dove i nazionalisti usano la loro agenzia appena fondata per foggiare una società più omogenea, libera da “contaminazioni” etniche. In gioco ci sono anche scommesse di comunità da tempo senza diritti, come la popolazione Rakhine, ad affermare il proprio diritto a cambiare il panorama politico prima che altri possano rubarlo.
Questa è stata la paura sfruttata abilmente dai militari ed agitata più di recente da capi nazionalisti che vogliono affermarsi al potere in Birmania. Potrebbe spiegare in parte perché la campagna dei militati non ha perso legittimità persino tra chi sposa ideali democratici: perché vedono le operazioni nel Rakhine come difensive della nascente democrazia i cui frutti si comprende siano limitati.
Ma l’altra parte, come possano essere moralmente giustificabili la pulizia di una popolazione, di giovani e di vecchi, richiede la fusione di quell’ansia sulle rivalità politiche con un credo che i Rohingya nutrano una innata cattiveria che deve essere recisa.
Mentre le dimensioni della minaccia percepita sono cambiate durante la transizione democratica birmana, quella convinzione non è confinata alle città e ai villaggi della Birmania occidentale. Non lo sono più dal momento in cui avendo i militari il potere totale, i differenti elementi della società birmana sembravano cantare all’unisono, slegati dalla loro geografia. Ora fanno lo stesso con uno scopo segnatamente differente.
Francis Wade, NYB