Quattro mesi fa, camminando dalla moschea verso casa sua nel villaggio natale a Maungdaw nello stato Rakhine, Rasheed Ali fu avvicinato da un mullah della scuola islamica locale, colui che gli aveva insegnato a leggere il Corano da bambino, con una proposta che non poteva rifiutare.
Il Mullah, un insegnante islamico, lo implorò di unirsi al ARSA, esercito di liberazione dei Rohingya del Arakan, conosciuto prima come Harakah Al-Yakin, “movimento della fede”, che lo scorso ottobre si è fatto conoscere con una serie di attacchi coordinati contro la polizia di frontiera birmana, BGP.
“Mi disse che dovevo unirmi al ARSA per difendere la nostra religione, attaccata nel nostro paese, che l’ARSA si batte per i nostri diritti e per riprenderci la cittadinanza” ha detto Rashid Ali ad Asiatimes in una casa rifugio in un campo nel Bangladesh.
Fuggì nel Bangladesh con oltre 600 mila persone dopo che i militari birmani, Tatmadaw, lanciarono le brutali operazioni di pulizia nelle aree a maggioranza Rohingya dello stato Rakhine rispondendo agli attacchi coordinati del ARSA contro la sicurezza birmana del 25 agosto.
Rasheed Ali, un giovane timido, dice che gli furono date poche opzioni se non di unirsi all’insorgenza Rohingya.
“Il Mullah mi disse che sarei stato denunciato come un traditore se avessi rifiutato, che avrebbe fatto di tutto per farmi allontanare dalla comunità e che sarei potuto pure essere ucciso”
La giovane recluta militante dice di non aver ricevuto alcun addestramento né gli fu data alcuna spiegazione di una strategia più vasta del ARSA. Dice di conoscere solo sette altri militanti del ARSA, tutti del suo villaggio e di aver ricevuto gli ordini solo attraverso il suo mullah senza alcuna conoscenza della gerarchia che aveva alle spalle.
Gli fu dato un compito: sorvegliare quattro informatori del governo locale e riportare periodicamente sui loro incontri e movimenti. “Lo devi fare per dio” gli fu detto dal mullah.
Da quando lo scorso ottobre iniziarono le attività a bassa intensità del ARSA, sono stati uccisi decine di amministrazioni dei villaggi Rohingya e presunti informatori del governo e molti indicano l’ARSA . Rasheed Ali ha detto che nessuno dei quattro informatori che doveva spiare era stato ucciso e che ora vivono nello stesso campo dei rifugiati in Bangladesh.
Un mese prima che Rasheed Ali fosse costretto ad arruolarsi nel ARSA, Ahmad Jarmal, un giovane negoziante, si era unito al gruppo del suo villaggio nel nord di Maungdaw.
“La gente di Al Yakin venne nel nostro villaggio e ci chiese di unirsi a loro” ha detto ad Asiatimes dal Bangladsh. “A noi piacevano perché ci assicuravano che avremmo avuto la cittadinanza ed i diritti. Alcuni anziani conoscevano la gente nel gruppo e dissero di unirsi a loro”.
Ahmad Jarmal stima che circa un centinaio di uomini del suo villaggio si unirono al ARSA, molti che conosceva. Anche lui non ricevette alcun addestramento ed era in contatto con soli poche persone ed il suo superiore immediato, un uomo che si diceva ricevesse gli ordini dai comandanti dell’organizzazione.
“Un mullah importante nel villaggio ci disse anche che era il gruppo giusto a cui unirsi, perché mantengono le pratiche religiose e seguono il profeta” spiegò.
“Quando mi unii il compito mio era di essere una sentinella nel villaggio e di avvisare se la polizia di frontiera o i militari si avvicinavano al villaggio” racconta Ahmad. “Un altro compito era di assicurarsi che la gente adempiva ai doveri religiosi, quindi dicevano di andare alla moschea prima delle preghiere se li vedevamo camminare per strada”.
Sia Rasheed che Ahmad affermano che non sapevano che l’ARSA avrebbe attaccato le posizioni delle forze di sicurezza birmane quel 25 agosto, e che le posizioni della polizia di frontiera vicino al villaggio non erano prese di mira. Seppero dell’attacco dopo quando militari e polizia attaccarono il villaggio in rappresaglia, un assalto che ha causato uno dei più grandi movimenti di massa di rifugiati di memoria recente.
“Il giorno dopo gli attacchi la polizia di frontiera venne al nostro villaggio ed alcuni Rakhine si unirono a loro. Volevamo combatterli ma avevamo solo bastoni e coltelli. Non potevamo difenderci e fuggimmo” disse Ahmad Jarmal.
“Mio fratello fu ucciso dalla polizia. Tutti nel villaggio fuggirono e la polizia e i Rakhine distrussero le nostre case.”
Il villaggio di Rasheed fu attaccato dalle forze di sicurezza alle prime ore del 26 agosto; dice che fu costretto a scappare da solo. Ritrovò la famiglia il giorno dopo che si nascondeva in una fossa e poi viaggiarono insieme verso il Bangladesh. Dopo un viaggio estenuante raggiunsero la frontiera furono presi in uno dei campi grandi e sparsi a Cox’s Bazar.
I due militanti del ARSA dicono di essere profondamente amareggiati sul non essere stati informati sui piani di attacco dei capi del gruppo.
“Se potessi parlare loro chiederei a capi perché hanno fatto questo. Sapevate che non avremmo potuto vincere e che la Tatmadaw e la polizia ci avrebbero massacrato. Perché non ci avete ucciso direttamente?” ha detto Rasheed Ali.
Si sa poco della strategia complessiva del ARSA. Secondo International Crisis Group il comando del gruppo è formato in un comitato in Arabia Saudita. Il capo sul terreno Attah Ullah è un Rohingya nato in Pakistan e cresciuto in Arabia Saudita.
Nelle frequenti dichiarazioni pubbliche ARSA insiste a dire che porta avanti una lotta etnico nazionalista per i diritti dei Rohingya; il cambio di nome improvviso non spiegato da Harakah Al-Yakin ad ARSA indica comunque un desiderio di prendere le distanze dalle connotazioni religiose almeno negli occhi del mondo.
I racconti di Ahmad Jarman e Rasheed Ali suggeriscono che la religione gioca un ruolo maggiore nell’insorgenza Rohingya più di quanto ARSA voglia ammettere, ma allo stesso tempo non implica necessariamente un’ideologia jihadista. Nelle dichiarazioni pubbliche ARSA evita in modo studiato l’associazione con la rete jihadista transnazionale, una connessione che il governo birmano ha fatto in fretta nel definire un gruppo come “terrorista estremista” nonostante la mancanza d prove concrete di tali legami.
Mentre i Rohingia in due decenni hanno mostrato poca inclinazione verso la lotta armata, l’emergere del ARSA è una conseguenza diretta dell’oppressione che il gruppo soffre da molto tempo. Quell’oppressione è peggiorata tantissimo dopo l’ondata di violenza settaria che ha preso lo stato Rakhine nel 2012.
L’apertura democratica birmana dopo decenni di governo militare diretto è servita solo a far perdere ulteriormente diritti ai Rohingya.
Circa 120 mila Rohingya languiscono nei campi di internamento dalla violenza del 2012.
Nel frattempo il vetriolo razzista contro di loro sia nei giornali ufficiali che nei media sociali si è diffuso molto. Il gruppo non fu incluso nel censimento del 2014, e non fu loro permesso di votare alle elezioni del 2015 che misero NLD e Aung San Suu Kyi al comando della parte civile di un governo quasi democratico.
Sia Rasheed che Jarmad affermano che le azioni del ARSA hanno solo peggiorato la situazione della loro gente. I militari birmani hanno risposto agli attacchi di agosto con una barbarie prevedibile quanto scioccante, una campagna che l’ONU ha detto essere “pulizia etnica”.
Rasheed crede che ARSA “ha provocato i militari deliberatamente” per provocare una reazione contro di loro che erano nella posizione di poter difficilmente combattere o resistere. In retrospettiva dice che potrebbe essere proprio quello che i capi del ARSA intendevano.
In una recente indagine il giornale The Dhaka Tribune citava un comandante del ARSA dire: “Per avere qualcosa devi perder qualcosa. Stiamo morendo da 70 anni. Almeno ora il mondo nota le nostre morti!”
Da Agosto l’ARSA non ha fatto nessun altro grande attacco anche dopo che ha finito il mese di tregua unilaterale il 9 ottobre. Mentre non si può predire cosa farà ora il gruppo o misurare la sua capacità di lanciare un altro pungente attacco coordinato, è lo stesso difficile sapere di quanto sostegno popolare il gruppo goda.
Alcuni rifugiati in Bangladesh accusano ARSA per la loro condizione disperata, mentre altri dicono che considerano il gruppo come i loro combattenti per la libertà. Comunque sia le condizioni disperate nei campi del Bangladesh sono terreno fertile perché l’ARSA si ritiri e riemerga con nuove reclute prese da una massa immensa di frustrati giovani arrabbiati.
“Sono la nostra gente e lottano per la patria Rohingya e i nostri diritti” dice una donna adulta Fateemah della città di Buthidaung del Rakhine. “Siamo pronti a morire nella lotta per le future generazioni.”
Ahmad Jarmal da parte sua si sente molto tradito. Quando era nel suo villaggio aveva chiesto al suo reclutatore quando avrebbero avuto le armi per combattere il Tatmadaw. “Ci dissero che non dovevamo preoccuparci e pensammo che avremmo avuto armi. Non le abbiamo avute mai”.
Amareggiato e deluso, Ahmad dice che non si considera più un militante del ARSA, indipendentemente dai rischi in cui così incorrerà.
Ma quando gli si chiede del suo desiderio di combattere le forze birmane risponde: “Mi unirei alla lotta se avessi le armi, comunque arrivassero”.
Carlos Sardina Galache, Atimes.com