L’ufficio di Aung San Suu Kyi ha definito l’accordo una situazione ottimale per entrambi i paesi ma in molti analisti temono che in Birmania non sia affatto assicurata la sicurezza dei Rohingya.
Bill Frelick di Human Rights Watch dice:
“Oltre 620 mila Rohingya sono appena scappati ad uno dei più brutali casi di persecuzione di massa degli ultimi anni. E’ risibile l’idea che la Birmania ora li accetterà di buon cuore nei loro villaggi che ancora fumano”
La docente di legge Rosa Freedman scrive su The Conversation:
“… Riportare la gente Rohingya nelle mani di loro aguzzini non solo viola la legge internazionale ma fa sorgere sospetti fondati su come il mondo protegge chi fugge dai crimini ed abusi più odiosi.
Questo accordo giunge pochi giorni dopo la sentenza a vita per Ratko Mladic per il suo ruolo nel massacro di Srebrenica in Bosnia che avveniva anche durante la diffusione delle notizie da parte delle televisioni di tutto il mondo, che in modo analogo hanno documentato l’ultima crisi di pulizia etnica.
… Il governo birmano non ha interesse nell’accettare a braccia aperta i rifugiati Rohingya; chi rimane in Bangladesh è trattato come uno straniero, senza cittadinanza e diritti fondamentali e perseguitato. Il governo birmano sostiene che la recente violenza non era pulizia etnica, che non era una cosa decisa dallo stato né condonato e che i Rohingya possono tornare in sicurezza. Sono vuote parole.
… i rappresentanti dell’ONU usano da un po’ il termine pulizia etnica, usato ora anche dal segretario di stato USA Tillerson.
Considerato che la Birmania rifiuta di assumersi le responsabilità delle atrocità, e quindi di dare garanzia di protezione e giustizia per i Rohingya, non ci crede nessuno che il paese ora chiede a quei rifugiati di ritornare e che il Bangladesh darà il suo sostegno.
Secondo la legge internazionale i rifugiati che fuggono alle atrocità devono ricevere la protezione di base. Soprattutto sono protetti dai principi di dare asilo e di non respingimento, protezione contro il ritorno ad un paese dove una persona ha ragioni di temere persecuzioni.
Il Bangladesh insisterà che la Birmania vuole che la gente ritorni e che ritorneranno solo chi sceglie di tornare volontariamente. Si ignorano i fatti sul terreno. Le opzioni dei rifugiati sono tetre: restare in squallidi campi, scappare in qualche modo nella società del Bangladesh senza documenti o tornare a casa e ritrovare la persecuzione.”
Nell’articolo si ricorda che il Bangladesh non riconosce la convenzione dei rifugiati e non ha mai permesso ai Rohingya che in tanti anni lì si sono rifugiati di chiedere asilo. Possono solo stare in campi sovraffollati e malsani da dove la sola opzione è tornare in Birmania.
“L’idea del ritorno volontario si origina dall’accordo del 1993 tra i due paesi sotto cui quei Rohingya che provano la propria identità devono sottoscrivere i nomi dei membri della famiglia, il loro indirizzo precedente in Birmania, la loro nascita e la liberatoria secondo cui rientrano su base volontaria. Ma chi sceglie di rientrare si troverà di fronte all’estorsione, tassazione arbitraria, restrizioni di libertà di movimento. A molti sarà richiesto di fare lavori forzati e molti saranno soggetti a violenza di stato e omicidi extragiudiziali.
Chi resta in Bangladesh ha di fronte la vita perpetua nei campo dove gli abusi dei diritti sono forti, con alimenti, acqua e servizi inadeguati. Se scappano dai campi non hanno documenti e sono vulnerabili al traffico umano.
Qualunque cosa i singoli Rohingya decidono di fare il futuro per loro è tetro. E non è buono. La comunità internazionale ha da tempo saputo della persecuzione sistematica di questa popolazione, ignorando le atrocità perpetuata contro di loro. Ha anche tollerato le coperture e le scuse del governo birmano. Ora deve essere differente.
Il Bangladesh deve dare accrescere e dare rifugio a chi lo cerca da 25 anni. Gli stati vicini e gli alleati devono aiutare in modo giusto a reinsediare le centinaia di migliaia di Rohingya senza documenti fuggiti dalla Birmania e la Birmania stessa deve rispondere delle atrocità che commette. Se non si fa nulla non ha senso dire mai più.”
Molti Rohingya hanno espresso riluttanza a ritornare in Birmania credendo che il loro destino è il confino nei campi. L’ONU e gli USA hanno chiesto alla Birmania le garanzie che i rifugiati potranno tornare ai loro villaggi. Il governo Birmano ha risposto con una dichiarazione ad arte che ha firmato un accordo con UN-Habitat per dare le case a chi ritorna.
“Invece di firmare una cosa atta alle pubbliche relazioni la comunità internazionale deve chiarire che non ci può essere ritorno senza monitoraggio internazionale per accertare la sicurezza, porre fine all’idea di metterli nei campi, di ridare la terra e ricostruire le case e villaggi distrutti…” ha detto Frelick di HRW.
Ovviamente sarà comunque difficile ricostruire la fiducia nei Rohingya a ritornare volontariamente se i militari birmani non invertono la loro storia lunghissima di abusi e discriminazione contro la popolazione Rohingya.