Sin da quando i militari birmani della Tatmadaw hanno ripulito i villaggi dello stato Rakhine settentrionale con una campagna di terrore e distruzione che ha reso profughi centinaia di migliaia di Rohingya, è per lo più assente la insorgenza Rohingya ARSA i cui assalti goffi scatenarono i militari.
Durante quella che anno descritto come pausa umanitaria nelle ostilità dall’inizio di settembre all’inizio di ottobre, i militanti male armati e male addestrati del ARSA si sono dedicati ad assistere le colonne di rifugiati che hanno camminato nella giungla e nelle montagne verso il Bangladesh.
Allo stesso tempo i ribelli hanno organizzato la propria presenza nei campi di rifugiati che si estendevano dentro il Bangladesh che offrono un minimo di rifugio agli oltre 620 mila arrivi.
Ora nonostante ci siano nuove reclute ARSA non ha mostrato alcun tentativo di ritornare sui campi di battaglia. Si erge infatti un silenzio sinistro dai villaggi bruciati, dalle risaie lussureggianti e dalle colline intrise di pioggia del confine meridionale.
La mancanza di una risposta ha di certo più a che fare con le difficoltà che con la strategia. ARSA, che salì alle cronache con gli attacchi alla polizia di frontiera dell’ottobre 2016, oggi si trova davanti a due ostacoli che di certo non riusciranno a superare nei prossimi mesi.
Se messi insieme mettono in dubbio una futura possibilità di un’efficace insorgenza.
Il primo ostacolo è una mancanza disperata di armi che possano trasformare le nuove reclute in combattenti capaci di proseguire una campagna di bassa intensità alla mordi e fuggi contro le forze birmane. Il gruppo di recente si è vantato di avere oltre 5000 reclute.
Ma le prove mostrano che le aree di addestramento del ARSA dicono che solo una porzione piccola di militanti fidati e addestrati hanno accesso ad armi moderne.
Le migliori stime parlano di qualche centinaia di fucili di assalto, acquistati forse all’inizio dell’anno. Non si conoscono armi pesanti del ARSA come mitragliatrici o lanciagranata che sono fondamentali per sostenere ed espandere un’insorgenza.
Gli assalti di agosto furono cose male pianificate in cui giocarono un ruolo maggiore rispetto alle armi le molotov ed altri oggetti esplodenti sostenuti da cittadini mobilitati in fretta con Machete e spade. I risultati erano prevedibili con la morte di 12 persone della sicurezza e 70 insorti durante le battaglie.
Dopo la pubblicità globale e vivida creatasi per le atrocità commesse dai soldati birmani, si può assumere che non sarà difficile generare finanziamenti dalla diaspora Rohingya presente in Malesia, Pakistan, Arabia Saudita ed altri stati del golfo.
E’ possibile che ci sarà anche assistenza finanziaria da fonti musulmane vicine al di là della diaspora Rohingya, non per forza connessa con lo jihadismo transnazionale.
Ma trasformare questi soldi in armi dal mercato nero richiede tempo ed è pericoloso, come il comando del ARSA ha già imparato a proprie spese durante gli sforzi iniziali per acquitare munizioni nel mercato clandestino in Pakistan.
Per i nuovi arrivati in questo campo, acquisire armi è un affare che si fa meglio con intermediari che posseggono legami stretti ma invisibili con servizi di sicurezza di stati amici. Resta però da vedere se questi stati vogliono facilitare un’attiva insorgenza Rohingya nel Rakhine.
Il secondo ostacolo che si trova di fronte ASRA riguarda la politica del governo del Bangladesh che finora è sempre stata costantemente e prevedibilmente non vicina.
Indipendentemente dalla crisi profonda e destabilizzante accesa dal terrore generato dai militari birmani, Dhaka ha sempre avuto problemi nel mantenere relazioni con il vicino orientale che sono di tono non cordiale ma normali.
Al di là di nutrire e dare uno spazio al flusso notevole di rifugiati la priorità del Bangladesh è stata di assicurare un accordo sul rimpatrio quanto prima possibile mentre può ancora contare sull’attenzione internazionale e la pressione su Naypyidaw.
In questo è stato un importante passo in avanti anche se preliminare la firma del Memorandum di Intesa tra Birmania e Bangladesh.
Il corollario di questa politica è stato uno sforzo di bloccare ARSA dal divenire un ostacolo al ritorno dei rifugiati ed un pretesto di prevaricazione e stallo da parte di Naypyidaw.
Mentre è stato impossibile impedire a militanti disarmati del ARSA di stabilire una presenza nei campi, è stato ostacolato il loro movimento lungo la frontiera di 20 chilometri tra i due paesi.
La posizione del governo di Sheikh Hasina Wazed si è colorata della percezione che ARSA, come gli altri gruppi di insorgenza Rohingya prima, possano sviluppare legami con i partiti islamici locali legati al partito di opposizione del BNP.
Ancora più pericolosamente si potrebbero stabilire legami con i gruppi jihadisti illegali come JMB che si rese responsabile dell’attacco terroristico a Dhaka del luglio 2016.
Alla fine di agosto pochi giorni dopo l’esplosione della crisi, Dhaka offriva cooperazione antiterroristica a Naypyidaw sia contro ARSA che contro Arakan Army, iniziativa ignorata dal governo birmano.
In teoria si crea sia per la Birmania che per Bangladesh una finestra di opportunità in cui iniziare un credibile programma di rimpatrio e gettare le basi di una risoluzione più vasta della crisi Rohingya.
Considerando la sua debolezza militare, si può pensare che ARSA possa essere persuasa a sostenere una sistemazione complessiva che garantisca i diritti fondamentali ai Rohingya in Birmania.
Inevitabilmente il diavolo si nasconde sempre nei dettagli. Un rimpatrio per poter essere fattibile richiede la buona fede delle autorità birmane, militari inclusi.
Quello significherà procedure di registrazione fattibili piuttosto che insistere su richieste irrealistiche di documenti come un meccanismo di ostruzione e ritardo mirante a limitare il processo ad un piccolo numero di rifugiati o a farlo andare avanti senza soluzione temporale.
Il rimpatrio necessiterà anche assicurare che i rifugiati possano tornare ai loro villaggi piuttosto che essere concentrati in nuovi campi di attesa; che sia data loro assistenza nel ricostruir le loro case e che ci sia un credibile meccanismo di monitoraggio.
Alla luce degli ultimi eventi lo scetticismo abbonda. A generare questo scetticismo sono le stesse dichiarazioni del potente comandante in capo dei militari birmani, Min Aung Hlaing, che ha detto come fondamentale precondizione del rimpatrio sia l’accettazione della comunità buddista visceralmente anti-Rohingya dello stato Rakhine. Si aggiunge inoltre la stessa formulazione del memorandum di intesa che richiede che chi ritorna deve “stabilire prova di buona fede della loro residenza in Birmania”.
Sotto queste circostanze, il tempo gioca a favore del ARSA permettendo ai militanti di estendere la propria influenza e controllo sugli estesi campi profughi.
Inoltre la frustrazione creata dai ritardi allargherà le prospettive per ARSA di tradurre i legami internazionali in invio di armi e possibilmente di beneficiare dall’ambiente di sicurezza nel Bangladesh più permissivo di quello attualmente esistente.
Non è per nulla che i militari birmani si affrettano a riparare le vecchie demarcazioni della frontiera, a costruirne di nuove e a creare campi minati.
Anthony DAVIS, Atimes.com