Il rifugiato Rohingya in Bangladesh Abdul Masood teme che sarà costretto a tornare in Birmania dove sostiene che i militari hanno ucciso i suoi parenti e bruciato l’intero villaggio qualche mese fa.
Masood si unì ad un grande flusso di Rohingya musulmani che si riversarono nel Bangladesh sudorientale nell’ anno 2017 fuggendo alla violenza e alle atrocità commesse dai militari e dalle milizie buddiste nello stato Rakhine della vicina Birmania con una campagna che l’ONU e gli USA hanno definito pulizia etnica.
“Se ci mandano indietro non abbiamo speranza. Saremo tutti ucciso o peggio torturati fino alla morte. Chiedetelo a qualunque Rohingya e vi diranno che non vogliono tornare nonostante le promesse del governo birmano sulla nostra sicurezza” racconta Masood.
Lui, la moglie e tre bambini sono tra i 655 mila Rohingya che fuggirono ad agosto dalla Birmania, parte di una crisi mai vista in Bangladesh sebbene altri 400 mila Rohingya sono rifugiati lì dopo essere fuggiti da precedenti spasmi di violenza nel Rakhine.
“Non eravamo certamente preparati a tale flusso di persone, ma abbiamo preso le misure er fare il meglio di ciò che possiamo.” dice Sha Kamal, segretario del ministro del Bangladesh per gli Aiuti. “Ma sarebbe insopportabile per noi se dovessimo continuare così per molto”.
La scala ed il ritmo dell’ultimo influsso portò il segretario generale ONU Antonio Gutierres a descriverlo come “l’emergenza di rifugiati in più rapido sviluppo al mondo” quando invitò gli stati membri a dare aiuto per scongiurare un disastro umanitario in Bangladesh, mentre chiedeva alla Birmania di porre fine alla repressione militare nel Rakhine.
La repressione fu provocata dagli attacchi contro la polizia e l’esercito dall’insorgenza del ARSA il 25 agosto.
Sono almeno 6700 i Rohingya uccisi durante il primo mese della repressione tra i quali 730 bambini sotto i cinque anni secondo Medici Senza Frontiera.
Le vittime furono sparate, lasciate bruciare nelle loro case, picchiate e per altre cause raccapriccianti tra il 25 agosto ed il 24 settembre, ha rivelato MSF.
“Il conto dei morti è probabilmente sottostimato perché non abbiamo esaminato tutti i campi dei rifugiati e perché le indagini non tengono conto delle famiglie che non ce l’hanno fatto a scappare dalla Birmania. Abbiamo sentito le storie di intere famiglie perite dopo essere state richiuse nelle loro case mentre erano incendiate” ha detto il direttore medico di MSF Sidney Wong.
Il governo birmano ha ripetutamente negato tali accuse accusando delle violenze l’insorgenza.
“Agli inizi di settembre i soldati sono entrati nel nostro villaggio e ci hanno intimato di andarcene o di essere uccisi. Hanno iniziato a sparare in modo indiscriminato uccidendo mia madre, mio padre ed i miei fratelli e tanti altri abitanti” ha detto Masood che vive con la sua famiglia in una capanna alla buona nel tentacolare campo profughi di Katupalong a Cox’s Bazar. “Poi iniziarono a ad incendiare ogni singola casa. Non è rimasto nulla del nostro villaggio”
Francesco: Vi chiedo perdono.
Tali racconti da parte dei profughi giunti da poco sugli abusi portati avanti contro i Rohingia hanno acceso i musulmani creando grandi proteste antibirmane in Bangladesh, Indonesia, Malesia e in altri paesi a maggioranza musulmana.
La minoranza apolide Rohingya per decenni ha vissuto la discriminazione e persecuzione in Birmania che ha rifiutato di dare loro la cittadinanza, mentre la maggioranza buddista si riferisce loro col termine Bengalesi, immigrati clandestini dal Bangladesh.
Il dramma dei Rohingya ha attratto l’attenzione di Papa Francesco che si è recato in Birmania e Bangladesh incontrando in quest’ultimo paese un gruppo di rifugiati Rohingya.
“A nome di tutti quelli che vi hanno perseguitato, che vi hanno fatto del male, chiedo perdono, soprattutto l’indifferenza del mondo” ha detto il pontefice ai rifugiati durante un incontro interfede il primo dicembre. “Mi appello al vostro grande cuore che possiate darci il perdono che cerchiamo”
Benarnews ha intervistato Masood due giorni dopo l’annuncio da parte del ministro Nasim il quale confermava che, a partire da gennaio 2018, la Birmania avrebbe ripreso centinaia di migliaia di rifugiati dopo l’accordo bilaterale firmato dai due paesi a novembre.
Il 19 dicembre Bangladesh e Birmania hanno formato un gruppo di lavoro congiunto, JWG, per presiedere al rimpatrio volontario della comunità Rohingya rifugiata.
Ma molti, come Masood, hanno detto che loro e le loro famiglie non si sarebbero sentite al sicuro, se dovessero optare di ritornare.
“Quale garanzia abbiamo che non accadrà di nuovo una volta che ritorniamo? Dopo tutto la violenza contro la nostra comunità va avanti da anni. Improvvisamente la Birmania ci assicura che possiamo tornare sicuri. Difficile crederci.” ha detto Masoon.
Scetticismo sull’accordo di rimpatrio
Questo accordo “sembra più come uno sforzo di pubbliche relazioni da parte birmana per chiudere in fretta questo brutto capitolo” dice Bill Frelick di Human Rights Watch. “La Birmania deve ancora porre fine alle sue violenze militari contro i Rohingya, figuriamoci se possa creare le condizioni che permetterebbe il ritorno dei profughi in sicurezza”.
Ajai Sahni dell’Istituto per la gestione dei conflitti di Nuova Dehli, ICM, che dagli anni 90 documenta il rientro dei Rohingya, concorda.
“L’annuncio della Birmania di riprendere i Rohingya è solo un trucco per controllare la tensione internazionale crescente. La Birmania non è mai stata seria nel permettere alla comunità Rohingya di sistemarsi sul proprio suolo” dice Sahni che aggiunge come sia fortemente improbabile che i rifugiati accetteranno un ritorno in Birmania, dove i loro villaggi sono ridotti in cenere.
Tra il 1992 ed il 2005 sono stati rimpatriati 236495 Rohingya dal Bangladesh, secondo quanto scritto sul sito web del Consigliere di Stato Birmano.
“Nonostante i rimpatri e le varie assicurazioni la violenza e la persecuzione contro la comunità non si è mai fermata” dice Sahni.
Secondo un altro analista una grande maggioranza dei Rohingya rifiuteranno il rimpatrio in Birmania.
“Ma la realtà è che il Bangladesh deve mantenere le discussioni bilaterali con la Birmania e allo stesso tempo mantenere le relazioni internazionali per fare pressione sulla Birmania affinché assicuri il rimpatrio sicuro e dignitoso della comunità Rohingya” dice Tarek Shamsur Rahman dell’Università di Dhaka.
Per l’ex ministro degli esteri Mohiuddin Ahmed il processo di rimpatrio fallirà.
“Proprio dal 1992 la condotta birmana dei rimpatri indica che non sono affatto interessati. L’ultimo accordo fu fatto per evitare le pressioni internazionali”.
Jesmin Papri e Rohit Wadhwaney, Benarnews