La schiavitù e gli abusi dei diritti sono ancora una piaga nell’ industria della pesca thailandese nonostante le grandi riforme introdotte dal governo militare di Prayuth Chanochoa, dice HRW.
Sono stati rilasciati, davanti al parlamento europeo a Bruxelles, il rapporto “Le catene nascoste: lavoro forzato e abusi dei diritti nell’ industria della pesca thailandese” ed un filmato di 15 minuti.
Pescatori dei paesi confinanti sono ancora venduti per lavorare sui pescherecci thailandesi, senza poter cambiare datore di lavoro, mai pagati al momento giusto e meno della paga minima.
“I lavoratori dell’emigrazione non hanno la protezione delle leggi thai e non hanno diritto di formare un sindacato” si legge nel rapporto di 134 pagine.
Per il rapporto sono stati intervistati 248 pescatori birmani e Cambogiani nei grandi porti di pesca negli scorsi tre anni, tra i quali si ritrovano decine che erano stati già venduti come schiavi e dei quali 153 lavorano come pescatori. Sono stati intervistati rappresentanti thailandesi, padroni di pescherecci e comandanti, militanti della società civile, rappresentanti delle associazioni della pesca staff dell’ONU.
“I consumatori europei, americani e giapponesi devono avere fiducia che il pescato dalla Thailandia non coinvolga né la schiavitù né il lavoro forzato” ha detto Brad Adams di HRW per l’Asia. “Nonostante il profilo alto di impegno del governo di ripulire l’ industria della pesca thailandese il problema è ancora molto forte”
In seguito alla denuncia dei media delle violenze e dello schiavismo sui pescherecci thailandesi, l’Europa ha dato un cartellino giallo ad aprile 2015 alla Thailandia secondo cui il paese rischia il divieto di esportazione in Europa del pescato a causa delle pratiche di pesca illegali, non regolate e non accettabili.
Si chiedeva alla Thailandia di intraprendere riforme per porre fine agli abusi. Anche gli USA hanno posto la Thailandia nella Lista degli osservati al secondo posto nel suo rapporto TIP.
Il governo thai rispondeva con l’emanazione di una nuova legge di regolazione dell’ industria della pesca thailandese per porre fine agli abusi. I pescatori dovevano avere i documenti legali essere inclusi nelle liste della ciurma nel momento che le barche lasciavano e tornavano in porto. Si creò anche un sistema in cui si comandava alle barche di presentarsi alle ispezioni prima e dopo il ritorno al porto con procedure di ispezione in mare.
Il rapporto di HRW non è tutto in negativo. Si riconosce che le misure per monitorare le navi e limitare il loro periodo in mare a 30 giorni “Hanno portato ad importanti miglioramenti”.
Ma il regime delle ispezioni era “per lo più un esercizio di teatro ad uso del mercato internazionale” perché le autorità parlano al capitano e al padrone delle navi e controllano i documenti, ma di rado intervistano l’equipaggio, sostiene il documento.
Nonostante le importanti risorse messe a disposizione da parte del ministero del lavoro, non c’è un sistema di ispezione efficace per i lavoratori a bordo. Nel 2015 “non hanno individuato un singolo caso di lavoro forzato” tra gli oltre 470 mila lavoratori. E nelle oltre 50 mila ispezioni non si sono riscontrate un singolo caso di regolamenti violati per le condizioni di lavoro, di paga e di diritti.
Gli obblighi che i pescatori mantengano le loro carte di identità, di un contratto scritto e di essere pagati mensilmente erano negate dai datori di lavoro, poiché i membri della nave erano tenuti in un lavoro da debito per assicurarsi che non cambiavano datore di lavoro.
“La mancanza di impegno del governo thai significa che regolamenti e programmi di prevenzione del lavoro forzato nell’ industria della pesca thailandese non funzionano” dice Adams. “I produttori internazionali, compratori e rivenditori del pescato thai hanno un ruolo fondamentale nell’assicurare che terminino il lavoro forzato e gli altri abusi”
Secondo HRW, lo schema di registrazione della “carta rosa”, introdotta nel 2014 per ridurre il numero degli emigrati clandestini ha creato un ambiente facile per gli abusi perché legava i pescatori a posti e datori di lavoro specifici il cui permesso era necessario per cambiare lavoro.
Padroni di navi e comandanti senza scrupolo “nascondevano la coercizione e l’inganno dietro una parvenza di adesione” perché polizia compiacente fa semplicemente affidamento ai documenti consegnati dalle imprese della pesca come prova di adeguamento.
Le leggi thailandesi sul lavoro rendono difficile per i lavoratori immigrati di affermare il loro diritto perché è loro proibito di formare un sindacato. I lavoratori delle navi temono la vendetta e gli abusi dei capitani e dei padroni delle navi perché non possono intraprendere un’azione collettiva.
“Non ci si deve fare ingannare dai regolamenti che appaino buoni sulla carta ma che non sono applicati nel modo giusto” dice Adams “L’Europa e gli USA devono accrescere la pressione sulla Thailandia affinché protegga i diritti, la salute e la salvaguardia dei pescatori”.
Le ultime accuse colpiranno le credenziali antischiavitù del governo Prayuth ma quanto scoperto dal rapporto non può essere definito sorprendente, perché nell’industria della pesca Thailandese da decenni sono forti la schiavitù e gli abusi.
La grandezza del settore ed il fatto che la maggioranza di chi ci lavora sono emigrati dei paesi più poveri hanno negato la spinta a ripulire persino i luoghi di trattamento nei porti thailandesi.
Le grandi ditte di frutti di mare come Thai Union Group lavorano da tempo a mostrare che la loro catena di rifornimento non presenta lavoratori trafficati dai paesi vicini che sono trattati da schiavi.
Ma secondo gli osservatori la corruzione e la compiacenza del controllo sono radicate profondamente in parte perché i capi di governo, civili o militari, di rado hanno avuto la forza di far arrabbiare i capi dell’industria visto che le esportazioni valgono 7 miliardi di dollari l’anno e ono un componente vitale dell’economia volta al commercio.
Jim Pollard, Atimes.com