La scoperta di una lavoratrice domestica filippina morta in un congelatore di un appartamento a Kuwait City, il sei febbraio scorso, ho posto il presidente Filippino sotto pressione affinché protegga meglio i milioni di lavoratori filippini all’estero.
I datori di lavoro, un libanese e una siriana, di Joanna Daniela Demafelis, di 39 anni, denunciarono la sua scomparsa a novembre dello scorso anno. Sul corpo di Demafelis, che portava segni di tortura, c’erano i segni di molti colpi di coltello al collo. I suoi resti sono stati rimpatriati nelle Filippine alla famiglia il 16 febbraio.
L’assassinio di Demafelis non è solitario. Il ministero del lavoro e dell’impiego filippino, DOLE, di fronte a sette altre morti di lavoratori dell’emigrazione filippini, aveva ordinato il 19 gennaio un fermo temporaneo sui nuovi filippini che lavorano nella nazione del Golfo.
Il ministero filippino comunque indaga ancora sulle circostanze delle morti di sette lavoratori domestici filippini che sono Vanessa Karissha Esguerra, Devine Riche Encarnacion, Patrick Sunga, Liezl Truz Hukdong, Mira Luna Juntilla, Marie Fe Saliling Librada, e Arlene Castillo Manzano.
Il 12 febbraio Duterte rispondeva con l’emissione del divieto assoluto di inviare lavoratori verso il Kuwait.
Col suo stile populista chiese agli stati del Golfo in modo vasto: “Posso chiedervi ora di trattare i miei connazionali da esseri umani con dignità? Non voglio combattere con voi. Abbiamo bisogno del vostro aiuto per migliorare il nostro paese”
Secondo le cifre ufficiali, nel Medio Oriente sono impiegati oltre la metà dei lavoratori Filippini all’estero, una fonte ricca di rimesse che aiutano ad alimentare l’economia filippina. La Banca Mondiale e Global Knowledge Partnership on Migration and Development pongono le Filippine al terzo posto tra le nazioni recipienti di rimesse al mondo, dopo Cina e India.
Duterte fece appello alle legioni di emigrati filippini nella sua campagna elettorale promettendo di facilitare i tempi burocratici e combattere le agenzie fraudolenti che di fatto sono delle reti di traffico di schiavi.
Ha creato una Overseas Filipino Bank dedicata ai servizi bancari verso i lavoratori filippini all’estero, promettendo persino di creare un ministero apposito in un suo discorso di aprile a Bahrein.
“Noi parlamentari, sindaci, anche se siamo solo di passaggio, noi bastardi otteniamo un saluto” disse Duterte promettendo di combattere la corruzione degli uffici dell’immigrazione che prendono di mira negli aeroporti gli emigrati che rientrano. “ma i poveri lavoratori filippini devono sottostare ad ispezioni totali col rischio di perdere cose del loro bagaglio”
Di queste promesse populiste non tutte sono state mantenute. Duterte è finito sotto critiche pesanti per non aver protetto gli emigrati filippini nel sudestasiatico, nonostante il passaggio di un consenso non obbligatorio sulla protezione e promozione dei diritti dei lavoratori della migrazione durante la sua presidenza di turno del ASEAN. Aveva definito la misura “punta di diamante” della sua presidenza.
Il divieto di invio di lavoratori verso il Kuwait, nel frattempo, è già sotto attacco pesante per essere più un esercizio di relazioni pubbliche che una misura di riforma. Questo divieto totale all’inizio ha seminato confusione, poiché a centinaia di filippini furono negati i documenti necessari dalle importanti agenzie governative tra cui il POEA, l’amministrazione filippina dell’impiego all’estero.
Il divieto colpisce almeno 300 lavoratori al giorno che è il numero medio di filippini che partono per il Kuwait ogni giorno. Il primo giorno dell’applicazione del dcreto, 12 febbraio, 400 filippini erano stati già rimpatriati dal Kuwait che nel frattempo ha criticato il divieto e minacciato ripercussioni diplomatiche.
Il governo di Duterte ha finora promesso come assistenza finanziaria 480 dollari per ogni rimpatriato, una somma piccola rispetto a quanto guadagnano in genere nel ricco paese del Golfo.
I rappresentanti del ministero furono anche accusati dal senatore Joel Villanueva che presiede il comitato del Senato per il lavoro, per la risposta tardiva del governo alla crisi.
Il divieto di impiego in Kuwait è visto da alcuni come un atto di coraggio, mentre altri sentono che potrebbe fare più danni che bene nel lungo periodo.
Human Rights Watch ha detto che le Filippine dovrebbero invece “lavorare insieme al Kuwait per proteggere i lavoratori piuttosto che vietare loro di migrare che è più probabile che faccia più danno che bene.
Secondo HRW il governo filippino dovrebbe invece centrare gli sforzi per riformare il sistema Kafala degli stati del Golfo, con cui si richiede ai lavoratori di trovare uno sponsor responsabile dei loro visti e del loro status legale, per liberare i lavoratori dalle condizioni di abuso del lavoro.
Secondo il sistema Kafala, dice HRW, i lavoratori non possono lasciare o cambiare lavoro senza il consenso dei loro datori di lavoro”.
Secondo Manesty International “attraverso la legge dello sponsor i lavoratori della emigrazione sono in balia dei loro datori di lavoro”.
Migrant-Rights.org, organizzazione che promuove i diritti degli emigranti nel Medio Oriente, sostiene che i paesi che inviano hanno bisogno di comprendere bene come funziona il sistema Kafala e che spesso lega i lavoratori a situazioni difficili o impossibili come a condizioni che possono essere definite da lavoro forzato”.
Senza la riforma del sistema Kafala in uso in Libano, Bahrein, Iraq, Giordania, Oman, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi, che ospitano una grande comunità di lavoratori dell’emigrazione, i militanti del lavoro considerano l’estemporaneo divieto di Duterte di invio di lavoratori in Kuwait come una posizione di tribuno che una riforma.
“Cosa serve l’uso di un divieto se non porta alle riforme essenziali nella politica e nella pratica in Kuwait ed in altri paesi?” sostiene Rex Verona, coordinatore di Migrant Forum per l’Asia. “Questo divieto è più una posizione retorica ed il lavoro di un presidente e un governo pigri. Il divieto immediato non fa parte dei negoziati per la riforma”
Ellene Sana di Center for Migrant Advocacy (CMA) è d’accordo su questa idea. Nota che divieti simili imposti sui paesi destinazione come Libano, Libia e Iraq non sono serviti principalmente perché “ i lavoratori andavano lo stesso lì. I lavoratori andranno dove c’è il lavoro”.
HRW fa notare che quando la gente che è in forte bisogno di lavoro si trova di fronte ai divieti, migrano ugualmente, ma lo fanno secondo rotte più rischiose e senza regole. I divieti lasciano i lavoratori esposti agli abusi e al traffico umano e rendono più difficile affrontare gli abusi.”
Duterte non ha detto nulla se il suo governo sente il bisogno di una riforma del sistema Kafala per garantire ai lavoratori filippini all’estero sicurezza e diritti nelle nazioni del Golfo.
Sarebbe senza dubbio un duro negoziato perché le ricche nazioni ospitanti sono riluttanti a perdere il controllo che hanno sui lavoratori emigrati .
Il consigliere presidenziale per il lavoro all’estero Abdullah Mama-o ha detto ai parlamentari la scorsa settimana: “Possiamo avere tutte le leggi più belle in questo paese per proteggere gli interessi dei nostri lavoratori che lavorano in altri paesi, ma se abbiamo ancora questo sistema Kafala in varie parti del Medio Oriente, non avremo quel genere di protezione per i nostri lavoratori”
Mentre ora il divieto di impiego in Kuwait è in piedi, l’inviato filippino guidato dal sottosegretario al lavoro Ciriaco Lagunza è andato in Kuwait il 23 febbraio nella speranza che “… i lavoratori emigrati filippini abbiano protezione sufficiente”
Ma se non si supera e riforma il sistema Kafala, la sua missione diplomatica sarà probabilmente senza conseguenze come lo furono i divieti temporanei di breve termini dei governi precedenti per sostenere la sicurezza e i diritti dei lavoratori filippini all’estero.
Analiza Liezl Perez-Amurao Atimes.com
Le Filippine e le rivolte popolari nel Medio Oriente e Nord Africa
Mentre le Filippine, celebrano i venticinque anni dalla deposizione del dittatore Marcos, nel Mediterraneo moti popolari hanno portato allo scardinamento di vecchie dittature. Dalla Tunisia, all’Egitto, al Bahrain, alla Libia con la repressione cruenta e feroce. La rivoluzione filippina è stata forse studiata poco, lontana come è dall’immaginario europeo ed italiano. Mentre su questo sito è possibile consultare qualche materiale di quella fase storica, sono in molti a trarre qualche parallelo tra la rivoluzione non violenta guidata da Corazon Aquino nel 1986 a Manila e le rivolte attuali nel nostro vicino oriente. Qui è pubblicato uno di questi articoli apparso su AsiaTimes.
Gli insegnamenti nel maldestro Potere Popolare
di Joel D Adriano
Le sollevazioni popolari in corso contro le dittature nel Medio Oriente e nel Nord Africa hanno riportato alla mente i ricordi delle dimostrazioni di massa nelle Filippine che diedero origine al termine “Potere Popolare” cambiando il modo in cui si svolgono le rivoluzioni nel mondo. Nel momento in cui nelle Filippine commemoriamo il venticinquesimo anniversario di quella rivolta popolare, ci sono lezioni importanti per i manifestanti che lottano per il cambiamento in Tunisia, Egitto, Bahrain e Libia.
Il 25 febbraio del 1986 i dimostranti rovesciarono il regime repressivo del Presidente Ferdinando Marcos attraverso prolungate proteste di massa. Le Filippine erano una tra le quasi 100 differenti nazioni che, nell’ultimo quarto del ventesimo secolo, passarono dall’autoritarismo ad uno stato pluralista. Ma i risultati di lungo corso di una transizione politica, determinata più nelle strade che nei processi legali, sono stati decisamente ambivalenti.
Diversamente dalle nazioni del Medio Oriente, le Filippine avevano una infrastruttura politica per poter far funzionare la rivoluzione, avevano una democrazia funzionante prima che fosse instaurata la legge marziale nel 1972 e l’opposizione era ben preparata ad assumere il potere sull’onda della rivoluzione. La sollevazione ebbe anche una figura centrale attorno a cui ruotò quella della compianta presidente Corazon Aquino, il cui marito era stato ucciso tre anni prima da agenti del governo, mentre scendeva dall’aereo che lo riportava in patria dagli USA.
Aquino vinse le improvvise elezioni nel 1986 e la donna di famiglia assunse il potere dopo che Marcos abbandonò la nazione. Vale a dire, non ci fu un vuoto di potere e un governo civile prese il controllo nonostante le macchinazioni militari durante le proteste popolari che destabilizzarono il regime di Marcos fino a rovesciarlo.
Per l’attuale sollevazione popolare che percorre le nazioni del Medio Oriente e del Nord Africa gli esiti democratici sono meno certi. In Tunisia il presidente si è dimesso scappando in Arabia Saudita il 21 gennaio dopo settimane di proteste che hanno portato a termine il suo governo decennale di pugno di ferro. Tuttavia gli uomini del suo governo compreso il primo ministro guidano un governo ad interim.
In Egitto, diciotto giorni di rivolta di strada hanno messo fine al regime autoritario di Mubarak che ha lasciato il potere ai militari, l’istituzione da cui è sorto, e e ci si domanda fino a che punto i generali permetteranno alla democrazia di radicarsi e se passeranno il potere di spontanea volontà ad un governo civile eletto. L’esito di quanto succede in Libia è ancora più incerto, come pure il ruolo futuro politico dei militari.
Come testimoniato nelle Filippine, il potere popolare ha successo solo se i militari rifiutano la repressione armata. E’ quello che è successo in Tunisia e d Egitto dove i generali infine hanno accettato di sacrificare il loro dittatore e hanno risposto alla richieste popolari di cambiamento politico. Quello che determinerà largamente il futuro politico di questi stati sarà il modo in cui i militari negozieranno il proprio ruolo e i privilegi dopo le proteste e nella fase di transizione.
Nelle Filippine la leadership militare ha tratto vantaggio dalla popolarità del dopo Marco per fini elettorali. Vari militari in congedo sono diventati senatori e la presenza politica crescente dei militari è culminata nella elezione alla presidenza di Fidel Ramos nel 1992. Tuttavia nonostante la discesa in campo politico dei militari, successivi governi democratici eletti hanno registrato vari colpi di stato falliti.
A venticique anni dalla rivolta popolare, la democrazia è ancora debole e con profonde pecche. Mentre sono state reintrodotte le libertà civili, molti dei problemi lasciati da Marcos, come l’estrema povertà, la corruzione rampante e le profonde ineguaglianze sociali, sono continuate o anche peggiorate sotto i regimi democratici. Sequestro e assassini di attivisti e giornalisti, di quotidiana memoria ai tempi della legge marziale di Marcos, continuano oggi impunemente.
A posteriori, alcuni sostengono che le Filippine si sono mosse troppo in fretta con la riconciliazione e troppo lentamente nel fare giustizia degli abusi del passato. Gli sforzi per recuperare le ricchezze mal conseguite e punire le fonti delle violenze durante l’era di Marcos alla fine persero di forza e sono state largamente lasciate irrisolte. Dopo un quarto di secolo dalla rivoluzione, le vittime di Marcos devono ancora ricevere una completa giustizia, mentre quelli che ingrassarono i propri conti bancari in quel periodo rimangono nelle posizioni privilegiate del potere economico.
Ora il figlio del dittatore Marcos, Ferdinando Bon Bong Marcos Junior è un personaggio influente del Congresso. In una recente intervista ad un giornale sosteneva che le Filippine erano di gran lunga meglio durante il periodo della legge marziale del padre, con una posizione internazionale più di alto livello, con tassi di povertà e stabilità finanziaria migliori.
Le reazioni istintive al dominio decennale di un solo partito politico durante l’era Marcos videro l’introduzione di un sistema multipartito che ha assicurato che nessun candidato presidenziale sia stato eletto con una totale maggioranza sin dal 1986. Si sono venute a formare anche nuove specie politiche, le farfalle politiche, che saltavano da un partito all’altro a seconda del sistema di patronato più che per convinzione politica o ideologia. Il sistema del post potere popolare, che era stato costruito per evitare il riemergere di un dittatore come Marcos, ha paradossalmente assicurato che la democrazia sia rimasta debole e aperta agli abusi.
In Medio Oriente e nel Nord Africa dovrebbero fare tesoro della esperienza filippina. Un esito sfortunato del Potere Popolare qui è un profondo impulso a portare i problemi per quanto marginali sulle strade. Questa stessa tendenza ha fornito la copertura per i giochi del potere politico nella elite, come per esempio nel 2001 con Potere Popolare II che spodestò il presidente democraticamente eletto Estrada.
Ci sono anche considerazioni geopolitiche da considerare. Le correnti rivolte in Medio Oriente minacciano la posizione strategica americana in una ragione strategicamente importante, come lo erano le Filippine del 1986. Con un alto sentimento nazionale sulla scia della rivoluzione, i legislatori volevano punire Washington per il supporto sostanziale dato al Regime di Marcos con le conseguenti cancellazioni dell’accesso agli americani alle installazioni militari e e con varie politiche nazionaliste che minarono molto la competitività rispetto ai vicini nella regione.
Gruppi politici nazionalisti ed islamici nel Medio Oriente fanno un paragone con il sostegno americano alle dittature cadute, specie l’Egitto. Così i nuovi ordini politici che nascono dal movimento del potere popolare potrebbero rendere prioritario arginare il ruolo di Washington nelle loro rispettive nazioni e fornire una possibile copertura per un balzo in avanti verso un maggiore nazionalismo.
Se può servire da guida l’esperienza filippina di una transizione guidata dal popolo verso la democrazia, quegli stessi gruppi dovrebbero essere attenti a porre l’accento sul tenere fuori i militari dalla politica e a dare giustizia a chi ha sofferto sotto i regimi autoritari.