Siamo in Bangladesh. Mahamuda Khatur ricorda quel giorno fatidico di tre anni fa. Suo marito aveva lasciato il campo dei rifugiati di Kutupalong, nel Bangladesh meridionale, all’alba in cerca di legna da ardere nella foresta per poterla vendere agli altri rifugiati oppure alla gente del posto.
Non è mai più tornato. Le fu detto che suo marito era annegato in un fiume, cosa che lei non ha mai avuto l’opportunità di verificare. Questa morte l’ha lasciata sola, vedova di 27 anni, con due figli. Sofferente da otto mesi di tubercolosi, Mahamuda è troppo debole per lavorare e non ce la fa a trovare da mangiare per sé o per i figli.
Il pallore sul volto e la magrezza eccessiva delle braccia parlano di una grave malnutrizione, e può solo contare sul buon cuore degli altri rifugiati per sopravvivere.
“Ma non c’è molto qui perché la gente possa fare qualcosa per noi, siamo tutti nella stessa condizione.”
Mahamuda è di etnia Rohingya, una comunità musulmana sunnita, scappata dalla persecuzione nella loro terra natia, la Birmania, verso il vicino Bangladesh e verso altre nazioni. Per tutta questa regione, su uno stretto fazzoletto di spiaggia, in una foresta rada o terra sabbiosa, schiacciate tra il golfo del Bengala e il confine birmano, si possono vedere gli esuli Rohingya trasportare pesanti fardelli di sale, fasci di legna da ardere, pile di mattoni, ceste di pesci, blocchi di ghiaccio.
Soprattutto i Rohingya portano il peso di essere una delle popolazioni apolidi più grandi del pianeta.
Di una popolazione stimata di quasi 2 milioni di persone, solo 48 800 di loro, registrati come rifugiati presso l’UNHCR in Bangladesh e Malesia, hanno uno status legale. La popolazione Rohingya di quasi un milione di persone che vive nello stato occidentale dell’Arakan Birmano non è riconosciuta e gli altri, una popolazione che oscilla tra 500 mila ad un milione e che vive esule in altri stati, sono considerati per lo più emigrati illegali.
Lo status dei Rohingya in Birmania non è sempre stato di paria. Benché siano sempre stati vittime costanti di un regime buddista sciovionista, animato da sentimenti anti indiani e anti musulmani che risalgono all’occupazione coloniale britannica, i Rohingya avevano lo status di cittadini sino al 1982, quando l’allora dittatore Ne Win promulgò una nuova legge della cittadinanza che li privò della loro nazionalità. Fu l’epilogo di uno dei capitoli più scuri nella recente storia birmana, l’operazione Naga Min (operazione del re drago), lanciata nel 1978 nello stato occidentale dell’Arakan.
In nome della repressione dell’immigrazione clandestina, l’esercito uccise, violentò e arrestò tantissime persone, per lo più Rohingya. I villaggi bruciati e saccheggiati con un occhio particolare alle moschee e agli altri luoghi di culto. Questa operazione costrinse almeno 200 mila Rohingya a scappare nel vicino Bangladesh, la maggior parte dei quali fu rimpatriata per la fine del 1979. Negli anni 1991 e 1992, per scappare dal frequente lavoro forzato per conto della giunta birmana, dalle esecuzioni sommarie, dalla tortura e dagli stupri, lasciò la Birmania un’altra ondata di 250 mila Rohingya. Attualmente continuano, benché in scala ridotta, le stesse pratiche repressive.
Durante una visita in un grande villaggio Rohingya dello scorso anno, un vecchio descrisse in dettaglio, al riparo in una vecchia moschea, le numerose restrizioni imposte dalle autorità birmane alla popolazione locale. “Nonostante viviamo qui da tante generazioni, abbiamo bisogno di un’autorizzazione speciale per qualunque cosa: per uscire dall’area, per mandare i figli all’università, per sposarli, per gestire affari. E come tutti nello stato, siamo costretti a fare lavoro forzato, agli arresti arbitrari, alla confisca della terra e ad altri abusi delle autorità.”
Lamentano, inoltre, di essere presi di mira dal gruppo predominante buddista dello stato dell’Arakan, Rakhine. E’ una triste ironia se si considera che gli stessi Rakhine sono oggetto di oppressione sistematica da parte della giunta contro le minoranze etniche. Sono regolarmente sui giornali le notizie degli incidenti violenti condotti da Buddisti radicali verso le moschee e le vendette da parte dei Rohingya. A giustifica, entrambe le comunità si scambiano argomenti infiniti spesso fondati sul pregiudizio o su fatti storici ricostruiti.
La Xenofobia è fomentata dagli estremisti di entrambi gli schieramenti ed anche dalla giunta militare che, con maestria, usa la tattica del divide et impera per mantenere il proprio controllo, ed essa ha chiuso ogni speranza di un dibattito spassionato. Ancora, gli argomenti proposti dalla comunità Rakhine, la “paura che i Rohingya occupino la nostra terra a causa del loro alto tasso di natalità e della rapida crescita della popolazione”, come espresso da un esule Rakhine in Bangladesh, hanno una qualche ragione e vanno affrontati in modo appropriato.
La situazione drammatica degli esuli Rohingya in Bangladesh, che è più accessibile per gli osservatori esteri di quanto lo sia la Birmania, è divenuta la vetrina della situazione apolide di una minoranza. Circa 29 mila Rohingya vivono come rifugiati nei campi di Kutupalong e Nayapara, a sud di Cox’s Bazar, una spiaggia famosa del Bangladesh. Questi campi sono sotto l’egida dellUNHCR e beneficiano della presenza di poche ONG internazionali. Questi campi, con le case ben costruite, scuole, campi da gioco e sistema di fogna, sono proprio come ogni altro campo adeguatamente amministrato al mondo.
Ma il campo di Kutupalong ha un fratello gemello dal volto meno amabile. Conosciuto con il nome Kutupalong improvvisato” è attaccato a Jutupalong Ufficiale. Migliaia di capanne in terra e fango, dai tetti di plastica, di rami secchi e foglie secche, si raggruppano in una sequenza di colline nude, con una popolazione che si aggira attorno ai ventimila persone secondo l’ultima conta di una ONG.
Qui non c’è una traccia di ombra, né ci sono latrine o un sistema fognario. Solo qualche pompa di acqua, installata da una ONG francese, per i bisogni primari. Di estate il caldo nelle capanne è opprimente. Nella stagione dei monsoni, la pioggia spesso distrugge le pareti delle capanne trasformando le stradine scoscese in torrenti di fango. In ogni stagione sono onnipresenti gli insetti forieri di malattia.
“Non abbiamo zanzariere a sufficienza” si lamenta Karim, il capo comunità di uno dei sei blocchi in cui è diviso il campo. “Tante malattie sono endemiche come malaria, diarrea e tubercolosi. Inoltre stiamo affrontando una epidemia di varicella e morbillo”
Le madri, come se si trattasse di qualcosa di indecente, mostrano i volti dei loro bambini pieni delle pustole della varicella. Ancora più preoccupante è il tasso del 30% di malnutrizione acuta denunciata nel campo dall’European Comission Humanitarian Aid Office (ECHO). Solo due ONG possono fornire le cure mediche alla popolazione del campo improvvisato, Medicine sans Frontiere (MSF) dell’Olanda, in un ospedaletto sistemato lungo la strada principale fuori del campo, e la francese Action Contre la Faim.
A pochi chilometri verso sud, Leda, l’altro campo non ufficiale con una popolazione di 13700 persone offre un volto leggermente meno disperato. Case in rattan si allineano lungo stradine asfaltate con intermezzi occasionali di aiuole e fiori. Tuttavia le autorità del Bangladesh hanno imposto restrizioni drastiche. Sono fortemente ridotte la distribuzione di cibo e l’istruzione. Ancora, se queste regole si applicassero rigidamente, questi due campi sarebbero due campi di morte.
Nonostante le condizioni spaventose, i rifugiati riescono ad aggirare queste interdizioni e organizzano la propria sopravvivenza. In Kutuplaong, per esempio, per sostituire una scuola vera e propria, i capi comunità hanno organizzato con l’aiuto di simpatizzanti esterni un insieme di trenta classi all’interno delle capanne tenute da insegnanti addestrati sul posto.
La restrizione meno osservata è quella di uscire fuori dal campo improvvisato. “Molti rifugiati se ne vanno per qualche giorno o settimana a lavorare nelle aziende dei mattoni o del pesce secco, nelle aziende del sale o come tassisti” dice Karim. “Lavorano per 100 taka al giorno, un dollaro e mezzo Dal momento che non è abbastanza per nutrire la famiglia entrambi i genitori devono lavorare.”
Questa popolazione di lavoratori illegali è particolarmente vulnerabile e dipende costantemente dalla grazia delle autorità e della gente. Sono ben documentati stupri, violenze, furti e altri abusi contro i Rohingya nel corso degli anni. Ci sono circa tra 250 mila e 350 mila Rohingya che non vivono nei campi e sono dispersi in tutta la nazione e, non avendo uno status legale, sono ugualmente a rischio.
Nella loro situazione c’è un’ironia. I Rohingya hanno origini simili ai bengalesi del sudest del Bangladesh e hanno la stessa lingua parlata a Chittagong, il porto più grande della nazione, e le aree circostanti. Si confondono in una popolazione locale densa e già povera, ma si crede ugualmente che rubino il lavoro e si accaparrino la terra.
“Nel tempo si è sviluppata una forte tensione tra le due comunità specie negli ultimi tre anni.” commenta Chris Lewa, coordinatore del Progetto Arakan, un gruppo dei diritti umani che monitora la situazione dei Rohingya. Ad Ukhia, una cittadina vicino Kutuopalong, la gente del posto ha creato dei “Comitati Anti Rohingya”. “Fanno incontri, pubblicano documenti, denunciano come i Rohingya subentrano loro nei lavori e chiedono la loro deportazione.” dice un giornalista di Kaladan di un’agenzia di notizie Rohingya di base a Chittagong.
Le violenze delle autorità locali erano diventate così note che nel febbraio 2010 MSF fece scoppiare il putiferio denunciando “una violenta repressione contro gli apolidi Rohingya nel Bangladesh che li costringeva in migliaia a scappare” per la paura dai campi. La campagna ebbe almeno un temporaneo impatto positivo sui Rohingya con un numero minore di casi di arresto e violenza da parte della polizia.
Comunque questa uscita di MSF, che secondo alcuni critici “servì solo a sviluppare un approccio non costruttivo verso il governo del Bangladesh”, più tardi scatenò una forte reazione da parte delle autorità. Furono sospesi i permessi di lavoro delle ONG nei campi costringendole nella situazione difficile di dover lavorare giorno per giorno sotto la costante minaccia di espulsione. “Sembrò una strategia del governo per mettere a tacere le ONG”.
La presenza, sia in Birmania che in Bangladesh, di una fetta di popolazione indigente, giovane, Rohingya fa sorgere la preoccupazione di un potenziale sfruttabile dai gruppi islamici estremisti. Benché siano stati denunciati pochi casi di reclutamento dai movimenti terroristi nel Bangladesh negli anni 90, non ci sono prove oggi che mostrino un qualunque legame con questo tipo di organizzazione, dice un lavoratore di una ONG.
In Birmania, la onnipresenza dell’apparato di sicurezza della giunta agisce da dissuasore verso ogni reclutatore dall’esterno.
“Queste accuse sono il risultato più della fantasia” dice uno del personale di MSF a Rangoon che lavorava nell’Arakan. “I Rohingya sono islamici ortodossi, conservatori, ma non vuol dire che siano terroristi.”. In Bangladesh una potente repressione del 2005 ha praticamente decimato i pochi estremisti islamici presenti.
Invece i Rohingya, a migliaia, stanno optando di lasciare il Bangladesh in cerca di altre nazioni percepite come più favorevoli; in molti tentano la fortuna con costosi viaggi via mare, attraverso l’Oceano Indiano, verso più ricche destinazioni del Sudestasiatico. Circa 25 mila Rohingya vivono in Malesia la maggioranza dei quali sotto l’egida dell’ UNHCR. Negli scorsi due anni altre centinaia hanno raggiunto l’Indonesia.
In Thailandia le autorità sono state coinvolte in una controversia sul modo in cui trattano i Rohingya che approdano via mare. Nel 2009 l’esercito fu accusato di respingere in mare 1000 Rohingya che si trovavano su barche senza un motore funzionante e con poca acqua e cibo. Secondo varie organizzazioni la metà perì in mare. Lo scorso mese il primo ministro Abhisit riaffermò in un incontro con i giornalisti la politica di deportazione del suo governo che considerava come “emigranti per ragioni economiche” piuttosto che rifugiati politici.
Tra loro i Rohingya spesso denunciano la mancanza di solidarietà da parte delle altre comunità musulmane. “Non ci sono considerazioni religiose, né fratellanza islamica” lamenta un leader del gruppo di esuli dell’ARNO. Una larga comunità si è stabilita in Arabia Saudita, nazione in cui prevale l’Islam sunnita.
L’ambasciata Saudita a Rangoon afferma che ce ne sono 120 mila lì benché molti siano arrivati col passaporto del Bangladesh. Altri 300 mila hanno vissuto per anni in Pakistan specie attorno a Karachi dove si sono ben integrati nella comunità locale.
Nel frattempo il rimpatrio dal Bangladesh verso la Birmania è ferma da vari anni poiché la situazione birmana offre poche garanzie di un ritorno in sicurezza.
Secondo il portavoce asiatico di UNHCR, Kitty McKinsey, “Tra il 1992 e 2005 quando avvenne l’ultimo rimpatrio, 236599 rifugiati tornarono in Birmania dal Bangladesh… Ci sono indicazioni secondo cui alcune centinaia di migliaia di Rohingya senza documenti, che per il governo del Bangladesh sono nella nazione, ora possano essere stati registrati come rifugiati nel 1991, poi ritornati in Birmania e ritornati di nuovo in Bangladesh”
Questi, secondo il portavoce UNHCR, hanno quindi perso lo status precedente di rifugiato.
La sistemazione in altre nazioni resta una soluzione eccezionale nonostante un programma iniziato nei campi nel 2006. Secondo un portavoce del International Office for Migration (IOM) l’agenzia che applicava il programma “926 di loro si sono sistemati per lo più in Gran Bretagna, Canada e Australia. Altri 500 dovrebbero essere risistemati quest’anno ma dobbiamo aspettare le conclusioni di una rivisitazione del programma fatto attualmente dal Bangladesh.”
Qualunque loro rimpatrio di massa rimarrà una pia speranza fintantoché rimane lontano un accordo politico comprensivo che affronti il destino delle numerose comunità etniche Birmane. Il nuovo governo recentemente nominato a Naypyidaw non ha dimostrato finora alcun segno di interesse a raggiungere un tale accordo. I Rohingya della Birmania saranno perciò condannati a sopravvivere ancora per molti anni in una esistenza apolide.