La maggioranza delle citazioni nel rapporto, nel quale si indica di perseguire i capi dell’esercito Birmano per genocidio e crimini commessi contro i Rohingya musulmani, erano fonti per discorsi, fotografie e affermazioni poste da figure pubbliche, grandi generali e rappresentanti del governo.
Il rapporto dell’ONU ha mostrato come i materiali diffusi pubblicamente sui media sociali possano essere usati per creare un caso legale comprese le iniziative di giustizia internazionali contro i militari birmani ed altri capi per presunto genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.
Facebook, che è stata molto criticata per non aver monitorato la propria piattaforma alla ricerca di materiali scottanti di lingua birmana che hanno contribuito ad accendere la violenza recente in Birmania, ha sostenuto che vuole ora adeguarsi alle richieste che i post possano essere usati come prove nelle procedure giudiziarie future.
Lo scorso anno fu emesso un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale sulla base di prove ricavate interamente dal sito dei media sociali. Fu il caso di un presunto comandante della Brigata Al-Saiqa in Libia che era accusato di coinvolgimento in 33 omicidi a Bengasi e aree circostanti tra giugno 2016 e luglio 2017.
I prossimi potrebbero essere i comandanti militari birmani coinvolti nelle atrocità contro i Rohingya. La Missione dell’ONU segnalò Facebook come una piattaforma fondamentale di distribuzione per discorsi di odio, tra i quali canali ufficiali, che possano aver diffuso parte della violenza che ha spedito 700 mila Rohingya dall’altra parte del confine in Bangladesh
« Come abbiamo spiegato nella nostra ricerca, Facebook è una grande piattaforma di media sociali in Myanmar ed è stata usata moltissimo per diffondere discorsi di odio» dice il membro della commissione ONU Chris Sidoti ad Asia Times. «Si comprende, dato il clima dei discorsi di odio, che la popolazione birmana senta un certo livello di paura verso i Rohingya. E’ una paura che non ha ragione nella storia, nei fatti o nella logica, ma prende le persone soggette al livello di propaganda e di discorsi di odio vissuti in Birmania. I Rohingya hanno una storia di una delle minoranze etniche più pacifiche in Birmania» dice Sidoti.
Nella conferenza stampa che è seguita al rilascio del rapporto, il membro della commissione Radhika Coomeraswamy ha notato che le atrocità «sono proseguite senza grandi proteste in Birmania» e che c’era un « insieme di questioni riguardo ai media sociali e discorsi di odio»
Coomeraswamy si è anche chiesto se sia saggio «affidarsi alla autoregolazione rispetto alla libertà di espressione con le organizzazioni di media sociali, o se non ci sia bisogno di una qualche regolamentazione»
Il gigante americano dei media sociali ha ricevuto grandi critiche per non essere riuscito ad affrontare il discorso di odio in Birmania come in altre parti. E’ stato anche accusato di non aver fatto nulla e di non aver seguito i consigli, che risalgono anche al 2013 nel contesto birmano, sulla potenzialità di un abuso della piattaforma in mercati politicamente deboli.
Gli esperti dei media sostengono che mercati nuovi come quello birmano sono stati catturati da Facebook con poco scrupolo come una opportunità di aggiungere nuovi utenti nel volgere di un giorno, in modo significativo in un momento in cui la compagnia, da poco listata in borsa, perseguiva una crescita veloce per andare incontro alle attese del mercato e mantenere l’alto valore delle sue azioni.
Questo è stato particolarmente importante poiché i mercati storici mostravano segni preoccupanti di maturazione e stagnazione. All’inizio del 2018 la compagnia annunciava un calo di 3 milioni di utenti attivi in Europa scendendo dai 282 milioni a 279 milioni nel primo trimestre dell’anno.
Gli utenti più preziosi di Facebook sono in USA e Canada, dove l’utente medio valeva 25,91 dollari di entrate al mese nel primo trimestre, seguito secondo la stessa media dagli utenti europei.
Un nuovo mercato come quello birmano è cosa rara in questa era di saturazione dei media: quando i dirigenti della compagnia sentirono di un paese in cui oltre 50 milioni di persone erano riusciti ad avere accesso ai telefonini, la considerarono una grande opportunità do accrescere la propria base di utenti.
Sono i dati a rendere un paese desiderabile per chi gestisce la pubblicità e cerca di prendere di mira geografie e demografie importanti: in luoghi come la Birmania, dove gran parte delle pubblicità sulla piattaforma avviene attraverso canali informali e non sulla piattaforma stessa, il paese non era probabilmente considerato come un’opportunità abbastanza ghiotta.
Ma la Birmania è portato alla compagnia un danno di reputazione superiore al guadagno conseguito con i milioni di nuovi utenti.
Dopo l’annuncio di Facebook risalente al mese scorso della chiusura di 46 pagine e 12 profili legati ai militari birmani per il loro coinvolgimento in una campagna segreta dei militari, i rappresentanti della compagnia hanno annunciato l’esistenza di una inchiesta interna.
Secondo molti critici, ci sono ancora grandi domande a cui Facebook deve rispondere urgentemente se spera di lasciarsi alle spalle quanto di brutto c’era nella storia in Birmania.
Senza dubbio il fatto che quelle campagne nascoste di pressione fossero ospitate sulla piattaforma è causa di preoccupazione, ed è importante che Facebook faccia conoscere completamente la vastità di questo contenuto falso ed il suo possibile ruolo nelle violenze recenti in Birmania.
Tutte le pagine ora vietate, nascoste e non, erano seguite da 12 milioni di persone, i due terzi dei 18 milioni di utenti birmani, secondo le stime di Facebook stessa.
Al momento si può solo provare a capire l’influenza delle pagine nascoste: le due pagine ufficiali del comandante in capo dell’esercito birmano Generale Min Aung Hlaing avevano un seguito combinato di circa 4.1 milioni di seguaci. Nei nominati profili in chiaro che sono stati vietati, solo Myawady News dei militari aveva un seguito sostanziale.
Le notizie false e le campagne di influenza disseminati con Facebook potrebbero essere stati spinti a milioni di telefonini, come pure a solo qualche centinaio.
Finché Facebook non rilascerà le cifre, è impossibile sapere solo quante persone consumavano e forse rispondevano alla campagna dei militari, sia contro i Rohingya che contro il governo civile del NLD.
Non è chiaro anche se il materiale nascosto sia stato amplificato attraverso il sistema a pagamento della compagnia, e se così fosse, se siano state prese di mira particolari demografie e geografie. Se lo fossero state, si porrebbe la questione di quanto Facebook si sia avvantaggiata dal diffondere discorsi di odio ufficiali e di altre fonti razziste.
In modo simile, c’è la questione se gli algoritmi di Facebook, sempre cambiati senza quasi alcuna trasparenza, abbiano dato inavvertitamente un maggiore pubblico a materiali che cercavano di reindirizzare l’accusa del disordine lontano dai militari e far circolare l’idea che i Rohingya non sono un’etnia legittima.
La propaganda ufficiale non è cosa nuova, in Birmania come dappertutto. Comunque i cittadini sanno più o meno cosa aspettarsi quando scelgono un giornale di stato o si sintonizzano su un canale gestito dai militari o quando comprano un compendio di True News del Directorate of Public Relations and Psychological Warfare birmano.
Che Facebook fosse usata per ospitare e distribuire materiale fuorviante parte di una agenda sulla piattaforma che molti utenti birmani considerano Internet è del tutto altra prospettiva.
Mentre il fenomeno non è esclusivo della Birmania, si è avuto in un momento in cui la pulizia etnica dei Rohingya era andato avanti senza contrasti e quando i media internazionali sono stati già trasformati in nemico pubblico agli occhi di molti cittadini birmani.
In un rapporto importante sulle campagne di influenza cibernetiche della fine dello scorso anno da parte della Oxford University, «Truppe, trolls e creatori di guai» la Birmania non era nominata come uno dei 28 paesi in cui esiste una pratica simile.
Di certo la cosa cambierà col prossimo rapporto. Il gruppo ComProp di Oxford ha detto che molti corpi dei governi e partiti politici nel mondo «stanno sfruttando i media sociali per diffondere notizie spazzatura e disinformazione, per fare censura e controllo e minare la fiducia dei media, delle istituzioni pubbliche e la scienza».
Lo scorso anno Omidyar Network e Democracy Fund emisero un rapporto in cui sottolineavano l’abilità dei media sociali di minare potenzialmente le istituzioni democratiche citando «minacce distinte al dialogo pubblico inondando lo spazio pubblico di realtà multiple in competizione ed esacerbando la mancanza di accordo su ciò che costituisce verità, fatti e prove».
«L’uso di falsi profili e della disinformazione sui media sociali è spesso usato per manipolare l’opinione pubblica dando l’illusione di popolarità o opposizione ad un’idea. Questa costruzione del consenso può portare al cosiddetto Effetto Vagone dove le persone sostengono un’idea o un potere politico perché sentono di essere marginalizzati» ha detto Samuel Woolley, direttore di Digital Intelligence Lab at the Institute for the Future.
L’abuso della sfera digitale può portare ad «un pubblico che è più confuso, polarizzato e più estremo quando si parla di percezioni di politiche evita pubblica»
Il danno causato dalla manipolazione della sfera digitale in Birmania, dove il 40% della popolazione considera Facebook come la prima fonte di notizie e dove 85% della popolazione gira nella rete attraverso questa piattaforma, è attualmente impossibile da stimare.
Facebook ora ha circa 60 membri di lingua birmana e la compagnia spera di portarli a cento per la fine dell’anno. I nuovi assunti per lo più monitorano i contenuti, non sono esperti avvocati del digitale o esperti di propaganda informatica, lasciando il dubbio se Facebook non resterà vulnerabile alla manipolazione.
Con le prossime elezioni birmane previste per il 2020, è importante per la democrazia debole del paese che gli utenti abbiano strumenti per valutare in modo critico l’informazione online, tra cui Facebook, durante una stagione che sarà accesa e ricca forse di campagne potenzialmente xenofobe.
AFP/ Ahmed SalahuddinMentre i media che seguono un programma sono sempre stati una minaccia, le potenzialità di abuso di Facebook e di altre piattaforme digitali sono alte in Birmania.
Gli analisti dicono che bisogna comprendere le ragioni per cui vediamo quello che vediamo online, ed a questo punto c’è davvero una compagnia che può fare chiarezza sulla questione in Birmania, Facebook. Il gigante dei media sociali è impegnato almeno a scansare le critiche sulla gestione passata degli abusi della sua piattaforma in Birmania.
Tuttavia quando Facebook annunciò che avrebbe chiuso un certo numero di pagine militari nascoste ed in chiaro della Birmania, la dichiarazione fu fatta in Inglese con altre nove opzioni tra cui scegliere.
Il Birmano, per non citare lo Shan, Kachin e Rohingya, non era significativamente tra queste.
Keyleigh Long, AsiaTimes