Sono state approntate le prime liste delle famiglie da spostare, ma al momento non sono stati consultati sulle loro intenzioni.
Ma dalle prime reazioni nei campi alla notizia, si sa che sono pochissimi coloro che vogliono tornare nell’incertezza e volatilità dello stato Rakhine, dopo tutte le violenze scatenate dalla sicurezza birmana ad agosto 2016, dopo un fallito attacco di militanti Rohingya contro le postazioni della sicurezza.
Troppo vivo è infatti il ricordo degli omicidi, degli incendi, degli stupri commessi, definiti dall’ONU come pulizia etnica prima e genocidio dopo, e ancora invariata la posizione del governo birmano che li considera Bengali e che nega loro dal 1982 la cittadinanza birmana, costringendoli in uno stato simile al Apartheid.
42 ONG e varie personalità hanno espresso la propria contrarietà a questo piano perché nessuno può garantire loro incolumità e sicurezza.
Le 42 ONG hanno dichiarato tra l’altro in una dichiarazione fatta circolare da Oxfam International:
“I rifugiati ci hanno detto in modo consistente che vogliono tornare alle case ed ai luoghi di origine o ai luoghi di loro scelta. Vogliono garanzie di poter godere uguali diritti e cittadinanza. Vogliono assicurazioni che finiranno le violazioni estreme dei diritti umani finora subite e che siano portati davanti alla giustizia i responsabili della violenza da cui sono fuggiti… Più di tutto ci dicono che hanno paura. Sono terrificati su quello che accadrà loro se saranno rispediti ora in Birmania”.
“Riesco a malapena a dormire per paura di essere costretto con la forza al rimpatrio. Da quando ho saputo che il mio nome è sulla lista, non riesco neanche a mangiare” ha raccontato Nurl Amin, rifugiato Rohingya nel campo di Jamtoli, alla Reuters che è riuscita ad individuare una ventina di persone della lista. L’uomo ha una moglie, una sorella e quattro figlie e la sua famiglia sarebbe stata inclusa in questa lista di 2000 rifugiati.
Molti dei rifugiati presenti sulla lista sembra abbiano deciso di spostarsi per non essere identificati, evitando anche di andare alla moschea per le preghiere.
I rappresentanti del governo del Bangladesh, però, ribadiscono che questo rimpatrio deve essere fatto su base volontaria, secondo l’accordo intervenuto tra Bangladesh e Myanmar, e che nessuno vuole fare pressione sui rifugiati affinché se ne tornino in Myanmar.
“Non li costringeremo a tornarsene. Il rimpatrio sarà volontario” ha detto il commissario bangladesi per i rifugiati, Mohammad Abul Kalam, il quale ha ammesso che sono state identificate le famiglie da rimpatriare senza però ancora consultarle.
“Non abbiamo ancora chiesto loro se vogliono ritornare. Al più presto cominceremo a chiedere la loro opinione” ha detto il commissario.
Opinione simile l’ha espressa un altro rappresentante del Bangladesh:
“Se li mandiamo indietro con la forza, o Myanmar li respingerà oppure proveranno a ritornare in qualche modo. In quel caso non li possiamo mandare via. Il Bangladesh vuole una soluzione permanente al problema”.
A questo si deve anche aggiungere la posizione di Myanmar che avrebbe esaminato la lista, ancora da rendere pubblica, ed ha detto che nella lista ci sarebbero molti “terroristi”.
Myanmar, sia per il governo che per i militari, considera quanto avvenuto legittimo uso della forza ed ha dichiarato “terroristi” coloro che hanno partecipato al fianco del ARSA agli attacchi.
Più organizzazioni dei diritti umani hanno denunciato che l’uso spropositato della forza da parte della sicurezza birmana, sia contro la popolazione che contro un’insorgenza che è molto male armata, era in realtà prestabilito e sarebbe dovuta servire a trovare una soluzione duratura.
Comunque Soe Han, direttore generale di un dipartimento del Ministero degli Esteri Birmano, ha detto che 54 persone incluse nella lista di 6472 Rohingya presentata dal Bangladesh erano stati identificati per i loro legami “terroristici”.
“Myanmar ha mandato una lista di queste persone coinvolte nel terrorismo al Bangladesh chiedendo di prendere provvedimenti, ma finora non è accaduto ancora nulla” ha detto Soe Han il quale ha aggiunto: “Se sono rimandati in Myanmar dobbiamo far rispettare la legge nei loro confronti”
Bangladesh e Myanmar hanno creato un JWG, gruppo di lavoro congiunto, per accordarsi sui dettagli del rimpatrio e qui il Bangladesh, pur riconoscendo la lista dei “terroristi”, ha posto il problema che questi “terroristi” non hanno compiuto nulla in Bangladesh:
“Abbiamo detto loro al terzo incontro del JWG che le persone che loro chiamano terroristi non hanno commesso dei reati in Bangladesh. Come possiamo fare qualcosa contro di loro?”
Il ministro birmano Win Myat Aye ha detto alla Reuters che si stanno facendo i preparativi per accettare 2251 persone attraverso due punti di transito via mare, mentre seguirà via strada un altro gruppo di 2095 persone.
Dopo l’identificazione saranno mandati ad un altro centro che provvederà alla casa e agli alimenti secondo un progetto di soldi in cambio di lavoro.
“A chi ritorna sarà permesso di viaggiare solo dentro Maungdaw, una delle tre aree da cui fuggirono, e solo se accettano una Carta di Verifica Nazionale, una carta di identità che la maggioranza dei Rohingya rigetta perché li definirebbe come stranieri” scrive la Reuters.
Dopo la legge del 1982 sulla cittadinanza la stragrande maggioranza dei Rohingya risulta apolide e lo stato birmano ammette solo per loro un sistema di cittadinanza in cui sono definiti bengalesi, non Rohingya, a dire che si tratta di gente del Bangladesh o del Bengala.
Nel frattempo il Bangladesh ha rigettato un’offerta canadese di dare una sistemazione definitiva ad un certo numero di rifugiati tra cui donne violentate e bambini, per paura che possa complicare lo stesso processo di rimpatrio.