Suo fratello scappò via con 3000 dollari dopo aver convinto la allora sorella diciassettenne a lasciare la Cambogia per sposarsi. I mediatori si divisero i restanti settemila dollari pagati dal marito cinese che tenne per sé l’erede tanto desiderato.
Ma il suo matrimonio ad uno straniero a così tanti chilometri da casa, in una lingua che non riusciva a capire era destinato sin dall’inizio a fallire.
“Non fu un giorno speciale per me” racconta la ragazza.
Nary è una delle migliaia di giovani donne cambogiane, Vietnamite e laotiane che ogni anno si sposano ad un cinese, colmando una differenza di genere tenuta attiva dalla politica del figlio unico di Pechino tenuta in vigore per trenta anni.
Mentre la politica è stata sospesa, è rimasta una mancanza di 33 milioni di donne.
La povertà è a spingere tante donne del Mekong a sperare in un matrimonio in Cina, blindate dalla scarsa istruzione e dall’attesa di dare sostentamento ai propri genitori.
Altre si spostano per lavorare ma finiscono nella rete dei matrimoni forzati. I casi peggiori coinvolgono il rapimento e la schiavitù attraverso delle frontiere porose.
Ci sono matrimoni felici e molte di loro hanno potuto sostenere i villaggi che si sono lasciati alle spalle. Ma le nuove realtà domestiche spesso si disfano e lasciano le donne a rischio di abuso, di detenzione per immigrazione o vendita al circuito della prostituzione.
Nary parlò ad un mediatore cambogiano su consiglio del fratello.
“Mi fidavo di lui” dice Nary quasi sussurrando, mentre la pioggia penetra dal tetto arrugginito di lamiera della catapecchia di famiglia nella periferia di Phnom Penh.
“La mia famiglia è povera e si attendevano che li aiutassi sposando un uomo cinese. E così fu”
Ma suo fratello sparì con la dote che avrebbe dovuto servire ad aiutare l’intera famiglia.
Comprarsi una moglie in Cina costa tra diecimila e quindicimila dollari, dati al mediatore che dà qualche migliaio agli amici all’estero che reclutano le mogli.
Una dote compresa tra mille e tremila dollari è sbandierata di fronte alla famiglia della ragazza che è l’ultima della catena che riceverà casomai qualcosa.
“Le famiglie ora guardano alle figlie per vere che cosa potranno ricavare” dice Chou Bun Eng del Comitato Nazionale Cambogiano contro la schiavitù, parlando del motivo economico che prevale in alcune case.
Il commercio dei matrimoni è un grande affare e le cifre ufficiali dicono che nelle province meridionali cinesi sono registrate diecimila donne cambogiane.
Le spose sono spesso tenute in una zona all’arrivo e le loro foto sono messe su WeChat e siti di appuntamenti per i futuri mariti. Più giovani e carine sono più sono costose.
Nary arrivò legalmente in Cina con un visto turistico, ma al suo arrivo a Shanghai scoprì che l’uomo che aveva pagato per sposarla era un lavoratore delle costruzioni che viveva in un villaggio, non il ricco dottore promessole.
Una donna che è comprata, pagata o venduta per sposarsi e portata all’estero, anche col suo consenso, è classificata come vittima del traffico dall’ONU
In Cambogia mediatori e terze parti rischiano 15 anni di carcere ed anche di più se la vittima è minorenne. Ma le condanne sono rare e i mediatori pagano fino a cinquemila dollari per comprare il silenzio delle vittime.
“Le vittime hanno bisogno di denaro” dice un magistrato che combatte il traffico. “E hanno terrore di queste grandi reti sistemiche”
La Cina ha anche le sue leggi contro la pratica, ma l’applicazione della legge è casuale dove le questioni di famiglia ricevono molta attenzione dalle autorità.
Per fare pulizia la Cambogia invita i futuri mariti stranieri a sposarsi secondo la legge locale con la prova del consenso, dell’età e delle pratiche.
“Sposare un uomo cinese non è cosa cattiva di per sé. Ma i problemi iniziano quando è fatto illegalmente attraverso mediatori” dice Chou Bun Eng.
Il matrimonio di Nary finì un mese dopo che diede ai natali un piccolo maschio quando la suocera immediatamente smise di nutrire il piccolo.
“Non me lo lasciò vedere o tenere neanche in braccio” dice Nary.
La famiglia spinse per il divorzio ma con un visto scaduto Nary sapeva che lasciare la casa l’avrebbe resa clandestina in Cina.
Alla fine se ne andò e trovò un lavoro misero per qualche anno un una vicina azienda del vetro. Ma lo stati legale la colpì e fu tenuta in un centro di detenzione per un anno insieme a tante altre donne vietnamite, cambogiane e laotiane, tutte con una storia analoga da raccontare.
Dopo il suo rilascio sua madre contattò una ONG che riuscì a farla rientrare a casa.
Ora lavora in una fabbrica di confezioni, libera da un matrimonio cattivo ma separata dal figlio.