All’estremità di un ponte nelle Filippine meridionali che porta al cuore della devastazione causata dalla battaglia contro militanti del Califfato islamico, si erge dalle rovine un grande tabellone blu elettrico.
Con le lettere colorate come l’arcobaleno annuncia orgogliosamente: «Marawi risorgerà di nuovo … presto»
Per ora sembra una promessa vuota.
Dopo oltre un anno dalla dichiarazione del presidente filippino Duterte di città liberata dal ISIS, Marawi ha la stessa parvenza di quando volavano bombe e proiettili nell’ottobre 2017, dopo cinque mesi di combattimenti urbani.
Non è stata ancora costruita una sola nuova struttura. Non sono state neanche tolte le macerie. Ad infestare le verdi erbacce ci pensano zanzare e serpenti. Bizzarri cani randagi si rifugiano dentro le costruzioni distrutte dalla battaglia.
Circa centomila persone dislocate dalla violenza di Marawi non possono tornare alle case e vivono con i parenti o in campi disposti in varie parti di Mindanao. Questa regione a maggioranza musulmana da decenni vede scontri tra le forze di sicurezza filippine e differenti gruppi di insorgenza e di militanza, compreso quello di Abu Sayaff.
Marawi comunque è una cosa a parte.
Dove gli scontri erano più intensi la distruzione è stata più diffusa.
Le forze del ISIS che tennero Marawi avevano molti combattenti stranieri tra loro, alcuni dei paesi vicini come Malesia ed Indonesia, ma anche da Yemen e Pakistan. I militanti riuscirono a persuadere membri di altri differenti gruppi di insorgenti ad aderire all’ideologia del Califfato Islamico.
Sono stati cacciati da Marawi, ma ora la ripresa è bloccata dal disordine e dalle false partenze che creano una delle crisi umanitarie più grandi e più tralasciate della regione.
Le ragioni di questo limbo di Marawi includono uno dei temi economici dominanti nella regione: sono calate le imprese cinesi ma hanno agitato l’opposizione e le domande locali sulle implicazioni del coinvolgimento cinese.
La decisione di seguire le proposte cinesi è stata cambiata dopo le pressioni locali. Ma era stata largamente vista come un altro colpo a Washington, alleato storico delle Filippine il cui addestramento contro il terrorismo ha aiutato a sconfiggere i militanti legati al ISIS a Marawi.
Ha anche messo in luce i rischi della strategia di Duterte nello stringersi alla Cina nonostante i legami storici con gli USA.
Non si tratta solo di geopolitica. La impressionante lentezza della ricostruzione agita la sicurezza filippina.
Il limbo di Marawi ha alimentato il risentimento, acceso dicerie di cospirazione e rafforzato potenzialmente il reclutamento di militanti pro ISIS e anche sollevato lo spettro di ulteriore violenza nel futuro.
Secondo Rommel Banloi del Philippine Institute for Peace, Violence and Terrorism Research, «Il reclutamento di gruppi terroristici si muove a velocità doppia rispetto alla riabilitazione. Più si ritarda la riabilitazione più si danno le basi per il reclutamento»
Banloi, che lavora strettamente con l’intelligence filippina dice che almeno 44 combattenti stranieri operano nell’area secondo quanto documentato dall’esercito filippino.
Il 24 gennaio l’esercito filippino ha detto di essersi scontrato con militanti proISIS a Lanao del Sur, dove si trova Marawi uccidendo tre militanti.
Aishah Riga, donna di 44 anni, sente nel rifugio temporaneo dove si trova le dicerie sul reclutamento di militanti.
Il loro cruccio, dice la donna, è che l’esercito filippino insieme agli alleati stranieri, hanno distrutto Marawi ed ora bloccano la ricostruzione. E’ una teoria cospirativa, ma funziona perché Marawi resta bloccata nella ricostruzione. E’ una teoria cospirativa, ma funziona perché Marawi resta una spettrale città fantasma.
«Se la gente si unisce a loro è perché è così frustrata col governo» dice Riga che vive in un rifugio temporaneo.
La problematica ricostruzione di Marawi era difficile sin dagli inizi. I capi locali e molti residenti del posto gridano contro l’idea di una ricostruzione guidato da un consorzio a guida cinese.
Il disagio è una combinazione di rabbia contro i Cinesi per la repressione contro la sua minoranza musulmana, gli Uighuri, ed una sfiducia generale sulle intenzioni cinesi. In tutta l’Asia molti paesi hanno avuto il rimorso del compratore per l’essere pieni di debiti ed aver perso il controllo delle loro strutture come i porti.
«Ci sono tanti incidenti proprio ora in Cina dove i musulmani sono perseguitati dal governo cinese» dice Sultan Hamidullah Atar, capo tradizionale a Marawi. «Come ci si può fidare di loro?»
Due imprese del consorzio di Marawi, China State Construction Engineering Corp., il maggiore costruttore della Cina e la China Geo-Engineering Corp, avevano i loro propri problemi. Sono state messe nella lista nera dalla Banca Mondiale nel 2009 per pratiche di corruzione nelle Filippine ed è stato vietato loro di partecipare ai progetti della Banca Mondiale per sei e sette anni rispettivamente.
Lo scorso giugno questo consorzio fu messo da parte per non essere riuscito a trovare i fondi per il progetto di Marawi.
Una task forze del governo è entrata in negoziati con la cinese Power Construction Corp., PoweChina, che lo scorso anno era entrata in una Joint Venture con la compagnia di costruzione filippina Finmat International Resources.
«Con PowerChina abbiamo iniziato daccapo» ha detto Felix Castro, manager della Task Force Marawi.
La cerimonia di inizio per la riabilitazione ebbe finalmente inizio il 30 ottobre. Ma i rappresentanti filippini hanno di nuovo cambiato il loro approccio e dicono che la PowerChina non è più coinvolta. La compagnia filippina Finmat ha avuto l’ordine di fermare la pulizia dalle macerie dopo aver demolito 56 costruzioni senza il permesso dei loro padroni.
Durante la visita a Ground Zero della battaglia non c’era alcuna attività di pulizia o costruzione. I mezzi come camion e equipaggiamenti di costruzione di color arancione erano fermi in un campo.
Finmat ora fa causa legale contro il governo filippino per la terminazione errata del proprio contratto, dicono persone informate che vogliono restare anonime.
In questa disputa i capi locali dubitano che il governo possa mantenere il proprio obiettivo di far tornare a casa le persone traslocate per la fine del 2021, prima che finisca la presidenza Duterte.
«Dicono nel 2022, Marawi è una nuova patria. La questione è che siamo nel 2019. I piani sarebbero dovuti iniziare a metà 2018. E la linea temporale doveva iniziare nel 2018« dice Fayka Adiong, presidente di un distretto di Marawi e portavoce per il movimento Let Me Go Home che sostiene chi vuole tornare nella città.
Quando le imprese cinesi uscivano di scena, gli USA ad ottobre hanno impegnato 25 milioni di dollari a chi è stato colpito dalla battaglia. Attraverso USAID Washington ha impegnato 60 milioni per programmi di istruzione e soccorso a Marawi.
«C’è una preoccupazione che gli interessi geopolitici spingano lo sviluppo in un senso o nell’altro» dice Sultan Atar.
Anche così c’è una sensazione che la massa dei soldi internazionali per la ricostruzione di Marawi, 675 milioni di dollari in aiuto e prestiti tra i quali 21 milioni cinesi, non sono giunti ai più vulnerabili.
Tutto intorno alle città e cittadine fuori Marawi ci sono decine di rifugi e campi di evacuazione.
Vanno da strutture in cemento con elettricità e bagni dove vive Riga a caotiche città di tende.
Molti vivono in case affollate di parenti ed amici, tutti si vergognano di essere passati dalla vita di classe media di commercianti e negozianti a quella dei rifugi controllati dal governo.
Tra i peggiori rifugi c’è un accampamento istituito sotto il campo di pallacanestro del comune.
Lì vive il figlio maggiore di Riga sotto una capanna non più grande di un grande tavolo con la moglie e cinque bambini. Se la sono costruita con truciolato di legno, cartoni e fogli di plastica, ed hanno eretto barriere alte fino alle ginocchia e porte improvvisate per non fare entrare i cani randagi di notte.
«Sentiamo di così tanti milioni e milioni donati in aiuto… ma non accade nulla» dice Riga la cui famiglia è fatta anche di nove bambini e sei nipotini.
Da quando lasciò la casa a maggio 2017, ha ricevuto solo mezzo sacco di riso per due volte.
«Dove hanno donato il denaro? Perché non lo vediamo?»
Banloi crede che questi campi, dove non esiste alcuna sicurezza, sono «terreni di crescita» per il reclutamento estremista, dai combattenti ai futuri capi.
«La situazione crea una sensazione di scontento, impotenza, rabbia… mancanza di fiducia che rende queste persone sensibili al reclutamento» dice il ricercatore della sicurezza.
Un altro punto di scontro potenziale si è avuto a gennaio con un referendum storico che mira a garantire una maggiore autonomia alla regione a maggioranza musulmana.
Il referendum, appoggiato da Duterte, crea una nuova amministrazione autonoma a Mindanao che prima avrà una autorità di transizione e poi un proprio parlamento. Il referendum è passato a stragrande maggioranza anche a Marawi ed è visto come un primo passo per porre fine alla violenza decennale nella regione.
Ma il referendum non è stato sostenuto dai gruppi come Abu Sayaff ed il gruppo Maute legati al ISIS, e gli analisti sostengono che la regione autonoma resterà sotto la minaccia della violenza.
Il 27 gennaio appena dopo il voto, due bombe sono scoppiate nella cattedrale di Jolo, capitale della provincia di Sulu, uccidendo 22 persone e ferendone altre 80. Le bombe erano state pensate per l’inizio della messa mattutina e la seconda è stata detonata quando sono arrivati i soldati in risposta. Gli esperti di terrorismo filippino dicono che porta tutti i segni di un attacco di Abu Sayaff.
Per tutto ground zero a Marawi i padroni delle case hanno scritto i nomi di famiglia e i numeri di telefono a modo di graffito, sui muri che restano in piedi delle loro vecchie case, un modo per definire la proprietà su cui un tempo vivevano.
I residenti di Marawi sono innervositi per il fatto di non poter ritornare a casa, ed averle viste solo per un viaggio di tre giorni ad aprile, temendo che in tutto questo tempo costruttori e governo volessero riprogettare la loro terra senza le loro idee.
«Il processo di guarigione non inizierà finché non arriva il momento che la gente possa visitare il luogo della loro sofferenza. La causa della loro sofferenza è la perdita delle loro case.» dice Acram Latiph, direttore esecutivo dell’Istituto di Pace e Sviluppo dell’università di Marawi.
Riga si mantiene al ricordo della loro breve visita nella loro costruzione modesta a due piani che ancora chiama casa. Portò con sé una pentola per cucinare, disperata nel voler cenare con la famiglia lì, anche se le stanze vuote, private di tutte le loro cose, e tutte le macerie che ricoprono il pavimento.
«Fu come vivere di nuovo a casa. Eravamo così felici» dice Riga che piange al ricordo, seduta sul suo materasso di un centimetro nel rifugio temporaneo
«Vogliamo tornare a casa. Questo è solo. Vogliamo tornare a casa a Marawi».