Pochi avrebbero potuto prevedere la decisione di lasciar cadere la richiesta di estradizione ed la liberazione del calciatore Hakeem al Araibi. Appena una settimana prima in un tribunale di Bangkok era apparso a piedi nudi e con le catene.
Gli era stato detto che la sua prossima udienza sarebbe stata il 22 aprile, che la richiesta di estradizione del Bahrein andava avanti e che rischiava di passare altri mesi in carcere.
Araibi disse, in un’intervista in carcere a The Age e Sydney Morning Herald il giorno successivo all’audizione, di credere che sarebbe stato torturato dalle autorità se fosse stato riportato al suo paese di nascita.
Dentro la stanza delle visite del carcere, parlando attraverso un telefono mal messo che separa i visitatori dai carcerati, Araibi diceva che provava ad essere forte, ma cominciava a perdere la speranza.
«Perché mi hanno messo le catene alle gambe? Non sono un animale. Mi faceva sentire male» disse ed invitava il governo australiano a combattere ancora per il suo rilascio.
Nel frattempo, era in corso una forte campagna tra Bangkok, Canberra, Melbourne, Londra e Zurigo di sostegno alla liberazione del calciatore.
A Bangkok c’era il gruppo di avvocati di Araibi guidato da Nadthasiri Bergman, l’australiano Evan Jones di Asia Pacific Refugee Rights Network e Phil Robertson di HRW. Si lavorava in silenzio all’inizio, ma Bergam era al lavoro da un mese senza un soldo, prima che si trovarono i soldi dalla comunità australiana di calciatori per pagarle l’onorario.
Il personale dell’ambasciata australiana lavorò sin dall’inizio per liberare Araibi a causa di un avviso rosso che non sarebbe mai dovuto partire.
A Melbourbe lavoravano per sostenere la causa e la coscienza pubblica Fatima Yazbek and Yahya al-Hadid del Gulf Institute for Democracy and Human Rights insieme al suo club del Pascoe Vale FC.
A Canberra il ministro degli esteri Marise Payne ed il primo ministro Scott Morrison e tutto il ministero degli esteri, lavoravano al caso con telefonate opportune, incontri, lettere e dichiarazioni dai toni studiati.
Si parla ora di un’inchiesta sul ruolo della polizia federale che ha notificato la Thailandia dell’arrivo di Araibi a Bangkok e se il sistema automatico di Avviso Rosso è adatto al caso.
A Londra Sayed Ahmed Alwadaei del Bahrain Institute for Rights and Democracy cercava nuovi modi per provare che Araibi non avrebbe potuto commettere il crimine di cui era accusato e condannato nel 2012 perché giocava in una partita trasmessa per televisione.
Tutta la comunità del calcio australiano, guidata da Craig Foster, il volto pubblico della campagna che faceva la spola tra Australia, Bangkok e Zurigo, ha lavorato con il presidente Brendan Schwab insieme ad altri per fare pressioni sulla FIFA sulla questione.
Pezzo per pezzo si costituì la campagna. La presenza di Federico Addiechi della FIFA nell’udienza del 4 febbraio, la sua ultima udienza, è stata considerata una vittoria importante ed un segnale alla Thailandia che questo problema non sarebbe scomparso.
In modo simile la presenza di tanti rappresentanti nell’audizione in tribunale di ambasciate Europee, americane, canadese e Nuova Zelanda alle spalle dell’ambasciatore designato Allan McKinnon ha avuto un impatto sul modo di pensare dei rappresentanti thai e fu un grande colpo per il personale dell’ambasciata australiana.
Ad un certo punto, il ministero degli esteri thailandese affermò che il governo non poteva fare passi per liberare Araibi, un commento in chiara contraddizione con la dichiarazione dell’avvocatura generale secondo cui il governo poteva liberare Araibi.
Poi giunsero gli interventi dei due australiani dell’anno, Richard Harris e Craig Challe, che avevano contribuito notevolmente al salvataggio del gruppo di calcio dalla cava di Tham Luang a luglio 2018.
I loro commenti ebbero un peso significativo e fu ascoltato in tutto il potere politico Thailandese. I media tradizionali e sociali seguirono costantemente il caso chiedendo il rilascio di Araibi.
Alla fine agli altissimi livelli del governo thai fu presa la decisione. Il problema di Araibi restava e la pressione internazionale sulla Thailandia cresceva. C’erano le crescenti richieste alla FIFA di sanzionare la squadra di calcio thailandese ed i club, una cosa che avrebbe causato un grande sdegno nella nazione avida di calcio.
Domenica il primo ministro Prayuth prese il telefono e chiamò il primo ministro del Bahrein, Khalifa bin Salman al-Khalifa, per discutere del caso, il giorno prima che si annunciasse il rilascio.
Fu mandato il ministro degli esteri Thailandese Don Pramudwinai a Manama, capitale del Bahrein, per incontrare il principe ereditario Salman bin Hamad Al Khalifa, e Khalifa bin Salman al-Khalifa.
Bisognava trovare una soluzione tale che salvasse la faccia a tutti e due i paesi.
Non si sa cosa si siano detti negli incontri e nelle telefonate. Il comunicato finale del ministero degli esteri del Bahrein accenna appena a quello che si è detto, che avevano discusso di cose di interesse comune.
Un osservatore attento però ha detto:
«La Thailandia ha capito che questa cosa non spariva così. La pressione continuava e si faceva difficile ed imbarazzante. Bisognava fare qualcosa che voleva dire mandare Hakeem in Australia. Il viaggio di Pramudwinai e la telefonata di Prayuth servivano a far capire al Bahrein che la Thailandia voleva chiudere il caso e provare a minimizzare l’imbarazzo per entrambi.»
Come dice Alwadei, un rifugiato egli stesso:
«La Thailandia decise che non era più il caso di rimetterci e ne andava di mezzo la sua reputazione, e non si poteva sostenere più la sua detenzione illegale».
Lo si fece in fretta. Il lunedì pomeriggio fu annunciato che si stava rilasciando Araibi il quale stava per imbarcarsi per Melbourne quella notte stessa.
Chatchom Akapin dell’ufficio dell’avvocatura generale disse che il Bahrein aveva detto di lasciar cadere la richiesta di estradizione, senza però alcun altro dettaglio di come sarebbe avvenuto.
Curiosamente il Bahrein in una dichiarazione disse di aver chiamato l’ambasciatore australiano in Bahrein per richiedere formalmente l’estradizione di Araibi.
Un altro analista di stanza a Bangkok dice:
«Bahrein ha fatto cadere la richiesta con la Thailandia e continuano con altri. Non vogliono perdere la faccia e continuano in altre parti».
Non ci sarà naturalmente un’estradizione.
L’Australia nel 2017 trovò che Araibi era davvero un rifugiato e dopo oltre 70 giorni di detenzione, ha casa a Melbourne con la moglie e libero di giocare ancora.
«E’ una giornata magnifica per una magnifica partita» ha detto Phil Robertson che ha paragonato gli eventi a quelli della ragazza araba Rahaf Mohammed che fu liberata dall’aeroporto di Bangkok dopo che la sua storia della fuga dalla famiglia fu conosciuta in tutto il mondo.
«Per la seconda volta in un mese abbiamo visto il potere dei media sociali e Twitter in particolare di concentrare i desideri del mondo sulla Thailandia in un caso particolare» dice Roberson. «I thailandesi hanno invertito quella che sarebbe stata una grave ingiustizia e per questo meritano credito. Ma Araibi per prima cosa non sarebbe mai dovuto essere arrestato».
James Massola, TheAge