Quando lo scoppio delle autobombe scuotevano la sua casa ad Idlib, Aisyah dice di aver avuto paura all’inizio. Poi però si abituò alle esplosioni.
Aisyah, vedova di un combattente dello stato islamico in Siria, racconta che il suo bambino più piccolo correva verso di lei piangendo ogni volta che sentivano quelle esplosioni rabbrividenti. Eppure prima che fosse ucciso suo marito, dice che era determinata a restare in quello stato distrutto dalla guerra.
“Non ero abbastanza forte da restare. Se mio marito fosse stato ancora vivo, sarei restata probabilmente” dice la donna. “Non ebbi la forza di continuare a stare lì senza di lui”
Aisyah una donna di 32 anni racconta a BenarNews la sua storia dalla casa materna nello stato orientale malese di Terengganu, dei suoi due anni in Siria dentro quel vasto territorio che era un tempo territorio del ISIS, il califfato.
Per la propria sicurezza scelse un nome di fantasia quando fu riportata a casa dalle autorità malesi ad ottobre 2018. Lei è stata la prima donna malese ad essere rimpatriata dopo aver vissuto sotto il governo del ISIS.
All’apice della sua forza ISIS controllò oltre 8 milioni di persone in un territorio che oltrepassava i confini di Siria ed Iraq costringendoli a vivere la sua estrema interpretazione della legge islamica.
A marzo dopo cinque anni di battaglie la coalizione delle forze sostenute dagli USA demolirono l’ultima roccaforte del ISIS a Baghuz, una piccola città oasi sull’Eufrate.
Di conseguenza ora l’attenzione si rivolge alle questioni complesse che circondano l’estradizione ed procedure legali per i combattenti stranieri catturati, come anche delle loro mogli e dei loro figli. Attualmente la maggioranza dei governi occidentali non li rivogliono prendere indietro.
Aisyah dice di non aver mai pensato di tornarsene, neanche una volta, sebbene le mancasse la famiglia e la madre. Ma aveva paura per la vita dei suoi figli dopo che suo marito morì agli inizi del 2018 combattendo per ISIS.
Fu il marito, un tecnico petrolifero che non ha voluto identificare, a pianificare il loro viaggio in Siria. “Voleva morire da Shahid, da martire” dice Aisyah.
Aisyah dice che era incinta di otto mesi nel 2016 quando entrò in Siria, attraverso la Turchia, con la figlia di tre anni, dopo aver dato ad una guida siriana 2000 dollari per farli passare.
Mentre il marito era entrato in Siria con un gruppo di uomini una settimana prima, Aisyah e la figlia fecero quel viaggio pericoloso con altre 15 donne e bambini, tra le quali c’erano indonesiani, americani e sudafricani.
Ricorda di aver camminato per cinque ore tra le colline quando passarono il confine turco in Siria.
“Lasciammo la Turchia dopo le Preghiere della Sera … e raggiungemmo la sommità di una collina alle dieci di sera. Scendemmo lungo la collina ripida dall’altra parte. Avevo con me una piccola borsa con pochi vestiti, pannolini per mia figlia ed i biscotti”.
!Quando arrivammo la guida sparò un colpo in aria e ci disse di fermarci. Un soldato del governo siriano ci detenne per un po’ ma ci permise di andarcene” dice Aisyah.
Almeno 102 malesi si erano avventurati in Siria ed Iraq dal 2013 nella speranza di unirsi al ISIS. Di quel numero 40 sono morti combattendo o in altre circostanze come 9 in azioni suicide, dicono le autorità malesi a BenarNews. Undici sono tornati a casa.
Dei 65 malesi che sono detenuti in Siria dalla caduta dell’ultimo bastione del ISIS, 39 hanno contattato la polizia malese chiedendo aiuto nel rimpatrio, secondo quanto dichiarato Ayob Khan Mydin Pitchay, capo della sezione antiterroristica malese della polizia.
“Ci hanno contattato e detto di voler tornare in Malesia. Questo comunque coinvolge tante parti e abbiamo bisogno di radunarli in un luogo” disse Ayob a Bernama, agenzia di stato malese.
“Crediamo che questo sia solo un piccolo numero di chi vuole ritornare, ed il numero crescerà” ha aggiunto, mentre rompeva il digiuno del Ramadan con un gruppo di ex militanti condannati nella cena annuale data dalla Polizia Malese Reale.
Aisyah dice che lei e la sua famiglia viveva nella città siriana nordoccidentale di Idlib, invece della destinazione originale di Raqqa, una città sulla riva nordorientale dell’Eufrate. Un tempo era un luogo di parchi verdi e di un’attiva classe media.
Erano la sola famiglia malese nella comunità, mentre il resto era costituito da indonesiani, dice Aisyah.
“Sentii che c’erano malesi a Raqqa, ma sentii anche che nessuno viveva più lì perché quando arrivai in Siria quell’area era sotto attacco. Saremmo dovuti andare lì inizialmente ma non potemmo. Ci sistemammo perciò ad Idlib” dice la donna.
Raqqa era allora controllata dal ISIS mentre Idlib era sotto il controllo del governo siriano, dice. Raqqa è ora una terra distrutta di cemento sparso dovunque e costruzioni distrutte dalla guerra.
“Idlib era bella, come ogni città. La gente da la loro vita di ogni giorno. Se non per il fatto che puoi vedere uomini e soldati per strada che portano armi”
Aisyah dice che la sua famiglia riceveva una somma mensile di circa 150 dollari dal ISIS.
“La quantità cambiava ogni mese a secondo dei fondi che avevano.” dice Aisyah. “Talvolta usavamo i nostri soldi”.
Parte dei soldi era usato per pagare l’affitto, poi per mangiare e le spese di casa, racconta e ricorda che dovettero cambiare varie case per poter stare nelle spese.
“Il fitto per gli stranieri era costoso. La gente del posto pagava la metà di noi, e perciò dovevamo vivere con le altre famiglie per tagliare i costi”
Aisyah era cresciuta mangiando riso, l’alimento principale nel Sudestasiatico, ma era difficile da trovare nella Siria distrutta dalla guerra, costringendola ad usare il grano. Frutta e verdure erano facili da trovare.
“Costava anche comprare la carne” dice, mentre ricorda che l’elettricità era anche limitata di solito tra le sei e le 11 della sera, ogni giorno. La mattina niente elettricità.
Il rumore delle esplosioni e le scariche delle armi da fuoco mettevano sempre paura al più piccolo.
“Quando accadeva, correva verso di me ad abbracciarmi piangendo” racconta “Il maggiore stava bene”.
Aisyah vide il marito per l’ultima volta quando se ne andò ad un addestramento militare.
Mentre era relativamente più facile entrare nelle aree controllate dal ISIS quando arrivò Aisya, i testimoni avevano detto ai gruppi dei diritti umani che era molto pericoloso scappare perché erano state minate le strade e le persone che avevano provato a fuggire erano state punite.
Suo figlio nacque in Siria. Lei riuscì a tornare a casa dopo che furono emessi per loro dei passaporti di emergenza da parte del governo malese, dal momento che tutti i loro documenti erano andati distrutti. Aisyah dice che suo figlio è apolide, perché la sua nascita non è mai stata registrata.
“Nessun documento da mostrare che è nato in Siria e non abbiamo registrato la sua nascita” dice Aisyah.
Una fonte della polizia dice che ci vorrà più tempo perché il figlio di Aisyah abbia la cittadinanza anche se la madre è malese. “E’ una questione di documentazione. Un processo lungo e tedioso” dice una fonte della polizia.
All’intervista di Aisyah erano presenti due poliziotte che però non hanno interferito.
Otto mesi dopo il suo ritorno a casa, la vita è ora tornata “normale” dice Aisyah riferendosi alla vita del suo villaggio, dove ora si sveglia ascoltando il cinguettio degli uccelli piuttosto che delle esplosioni.
Ma persino mentre è circondata dalla sua famiglia che la ama tra cui sua madre, dice che ha lasciato la Siria a malincuore.
“C’era un senso di dispiacere. Non mi aspettavo che sarei ritornata a casa”.
Muzlida Mustafa, Benarnews