Chamroeun Suon rischiò di diventare l’ultima vittima di una lunga serie di rifugiati, militanti e giornalisti del Sudestasiatico scomparsi in Thailandia, quando la sera del 22 dicembre scorso usciva da un negozietto della periferia di Bangkok
Il militante cambogiano di opposizione aveva comprato delle medicine e nell’uscire dal negozio fu bloccato da due uomini con un furgoncino in attesa a qualche metro di distanza.
“Polizia” gli disse uno in Thailandese. “Il capo mi ha detto di portarti da lui”, aggiunse poi in Khmer e rivelandosi così cambogiano.
Chamroeun Soun ritornò di corsa al negozio. “Mi inseguirono ed usarono due o tre volte volte un Taser su di me” dice Chamroeun che in ginocchio provava a resistere alla presa dei due uomini che continuavano ad usare su di lui la macchinetta.
Lo tirarono con la forza verso il furgoncino ma, quando un vecchio chiese loro chi fossero, Chamroeun riuscì a divincolarsi dalla loro presa.
Quando i due uomini ritornarono nel negozio si ritrovarono davanti i lavoratori che indicavano loro le telecamere di sicurezza. Con il taser senza batterie, tornarono al furgoncino e se ne andarono.
“Quando mi tolsi la maglietta c’erano tanti segni del taser sul corpo. Le scosse mi avevano indebolito” dice il militante cambogiano.
Chamroeun di 37 anni è un rappresentante del disciolto partito cambogiano CNRP della provincia di Battambang, ed ad ottobre si è rifugiato in Thailandia. E’ uno delle 18 personalità che il premier cambogiano Hun Sen definì traditore ed una delle 39 persone a cui fu ritirato il passaporto.
Dopo questo attacco, l’ufficio dell’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati ha accelerato le procedure per definire il suo stato di rifugiato. Lo attende la ricerca di una sistemazione in un paese terzo, Australia oppure USA, perché la Thailandia non è più sicura.
“Sono stati abbastanza audaci a bloccarmi nel mezzo di Bangkok” dice Chamroeun che, se fosse andato a termine il rapimento, si sarebbe aggiunto alla lista crescente di casi di scomparse forzate e respingimenti nel Sudestasiatico.
La Thailandia si trova al centro della maggioranza di questi casi: è la destinazione turistica più popolare per tutto il mondo, ma è un luogo che non è più sicuro per i rifugiati.
Secondo Phil Robertson, militari e uomini forti che governano nella regione sono giunti a trattare la Thailandia come “un negozio di compravendita” di rifugiati, militanti e giornalisti.
“Sembra che i rappresentanti di tutti questi governi giochino al mercante in fiera. Ti do questo se mi dai quello”
E’ difficile trovare delle prove su questo genere di coordinamento tra governi ed i militanti dei diritti si affidano a talpe ed informazioni, ma serie degli esempi mostra il disegno chiaro e preciso.
Od Sayavong, militante del gruppo Laos Libero, scomparve dalla casa di Bangkok il 26 agosto e non si conosce tuttora dove si trovi. Il suo presunto rapimento giunse alcune settimane dopo la fuga dal Laos del gruppo musicale thailandese Faiyen, minacciato da mesi di essere nel mirino di una squadra omicidi transnazionale.
“Questo fatto ci deve far pensare a tutti” dice Robertson, il quale incontrò Od appena prima della sua scomparsa, spiegando che gli esempi precedenti erano tutti limitati a province lontane o ad aree di frontiera. E’ particolarmente agghiacciante che il rapimento abbia avuto luogo a Bangkok.
Agli inizi del 2019, un blogger vietnamita fu rapito in un affollato centro commerciale e riapparve in un tribunale vietnamita a Danang.
Nello stesso periodo tre thailandesi scomparvero in Vietnam e si credette fossero detenuti. Erano noti critici della monarchia e si crede che siano stati assassinati, perché la loro scomparsa accadde a poca distanza di tempo dalla comparsa sulle rive del Mekong dei corpi mutilati di due esuli thailandesi in Laos. Di un terzo militante si crede che sia stato anche assassinato.
Come prova della cooperazione con la Cambogia, oltre al noto blocco delle personalità cambogiane in transito a Bangkok, Robertson cita il respingimento di un uomo che lavorò con una televisione russa ad un documentario sui bambini abusati sessualmente. Il giorno dopo un membro delle oscure magliette nere, attive in oltre più di un decennio di violenze politiche, si consegnò alla frontiera.
“Ovviamente è molto difficile avere prove documentarie di questa cooperazione, ma è chiaro che questi governi si grattano la spalla l’un con l’altro quando si tratta di rifugiati e di chi cerca asilo” dice Robertson. “Poiché sono accordi fatti a porte chiuse e negati in pubblico, operiamo nell’ombra per provare a fermare questi scambi. Il solo modo che abbiamo visto che funziona è di denunciarli ai media e cercare di costruire una coalizione di diplomatici, di personale dell’ONU e militanti per fare pressione sul governo thailandese perché si tiri indietro. Spesso però il nemico è il tempo quando ci affrettiamo a costruire una protesta per bloccare un respingimento pianificato o presunto oppure una consegna forzata”
I casi del calciatore Hakeem Al-Araibi, riportato a Melborne, e della giovane saudita Rahaf al-Qunun trasferita in sicurezza in Canada, sono dei casi di successo avvenuti dopo il grido di dolore internazionale.
Dal golpe del 2014, la Thailandia ha rispedito in Cina 109 Uiguri mentre altri 52 languiscono in detenzione da cinque anni, mentre tanti sono stati rispediti in Turchia e in altri nei regimi repressivi del Medio Oriente.
Le elezioni non sono state di alcun aiuto, dice Angkhana Neelapaijt di Peace Foundation. Nel 2017 il parlamento nominato dalla giunta militare del NCPO prese in considerazione una legge sulle scomparse forzate e la tortura che fu annacquata l’anno dopo senza essere promulgata. La legge è ancora lì che attende di essere ripresa nel nuovo parlamento.
“Questo vuol dire che non esiste un meccanismo per indagare i casi di tortura e scomparse forzate nel paese” disse di recente Angkhana ad un forum a Bangkok.
Poiché suo marito Somchai, avvocato dei diritti umani, fu rapito dalla sua macchina il 12 marzo del 2004 a Bangkok, Angkhana comprende bene sia il dolore delle famiglie che la pressione ufficiale che subiscono per restare silenziosi. Dice che le persone che avevano avvicinato il gruppo dell’ONU sulle scomparse forzate nel 2018 sono state costrette a ritirare le loro denunce.
C’è una “paura tremenda tra le famiglie delle vittime” che sono lasciate a combattere con “l’ambiguità tra esistenza e non esistenza”. Le scomparse forzate sono un crimine diverso dagli altri perché non finisce mai.
“Io resto una vittima mentre la gente al potere resta indifferente” dice Angkhana la quale sostiene che parlare è il solo modo di rispondere se non si vuole che “scompaia anche la scomparsa”.
Sette anni dopo che Sombath Somphone, militante dei diritti della terra, fu visto per l’ultima volta ad un posto di blocco della polizia a Vientiane, alcuni del governo tengono ancora d’occhio Ng Shui Meng che organizzò una veglia di preghiera in un tempio vicino. Sia i vicini che i famigliari furono contattati e intimati a non parteciparvi.
“E’ la tattica che usano di continuare a fare paura, a diffondere dicerie ed è sufficiente per i laotiani” dice Shui Meng. “E’ sufficiente per sapere che la polizia ti osserva”.
Il caso ufficialmente è fermo. “Sfortunatamente nel caso di Sombath e per tutte le altre vittime non ci sono nuove informazioni. Per me c’è il nulla”
Di fronte alle negazioni ufficiali o al silenzio, i governi come quello australiano avevano la responsabilità di parlare, dice Robertson. Ultimamente il ministero degli esteri e del commercio a condotto molte discussioni a porte chiuse.
“E’ importante che Canberra debba riconoscere che non tutto deve restare sempre privato e che è importante mescolare sia le critiche aperte che quelle fatte a porte chiuse” dice Robertson.
“La ritirata di Trump sui diritti umani è stato un disastro totale per i diritti umani in Thailandia e in tutto il Sudestasiatico” dice Robertson. “L’Australia non è allo stesso infimo livello come la Casa Bianca di Trump, ma c’è la paura che senza l’intervento costante dei militanti, gli accordi finanziari e di commercio avranno la meglio sulle preoccupazioni dei diritti umani come parte fondante della politica estera australiana”.
Michael Ruffles, Sidney Morning Herald