A Phnom Penh in Cambogia si sta per aprire il processo più importante contro il gruppo di comando dei Khmer Rossi che ordinarono i «Killing Fields» negli anni dal 1975 al 1979 durante il regime di Pol Pot.
Nel primo processo ci fu la condanna di Duch, il responsabile della prigione di Tuol Sleng, a 35 anni di prigione poi scontati a 19, per crimini di guerra, tortura e crimini contro l’umanità.
Nel secondo processo alla sbarra siederanno Nuon Chea, il numero due del regime, il presidente di allora Khieu Samphan, il ministro degli esteri del regime Ieng Sary e sua moglie Ieng Thirit. Sono tutti accusati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Sono tutti degli ultra ottantenni, di salute molto cagionevole, i soli sopravvissuti dopo la morte di Pol Pot per malaria.
L’importanza e la delicatezza di questo processo stanno anche nelle lotte intestine al tribunale che li esaminerà, una corte cambogiana (ECCC) sostenuta economicamente con grande sforzo economico dalle Nazioni Unite che ha nella sua composizione un membro non cambogiano nominato dalle Nazioni Unite. In cinque anni di funzionamento della Corte sono stati spesi 100 milioni di dollari.
Finora almeno cinque membri del personale estero hanno dato le dimissioni dopo che il tribunale aveva deciso che non ci sarà un terzo caso, che nessun altro sembra essere destinato ad essere accusato e processato, nonostante ci siano, a detta di alcuni procuratori stranieri del tribunale, forti prove delle atrocità commesse da due generali ancora presenti nelle forze armate cambogiane.
Per la Open Society Justice Initiative «è fin troppo chiaro che se la corte continua a dare l’impressione di essere succube alle interferenze politiche nel caso 003, il legato del ECCC sarà seriamente indebolito».
Le interferenze politiche sono quelle del governo di Phnom Pehn che prova ad impedire che il processo contro i Khmer Rossi possa intaccare anche quelli che sono rimasti al potere o che sono ancora nelle forze armate cambogiane.
Si parla infatti di due generali, Sou Met and Meas Mut, che erano stati amnistiati alla fine degli anni 90 con la fine della guerriglia dei Khmer Rossi e che, secondo le indagini dei procuratori, sono responsabili di «lavoro forzato, condizioni di vita inumane, arresto e detenzione illegale, violenze fisiche e mentali, tortura ed omicidi», di aver preso parte a purghe interne risultanti i migliaia di morti.
D’altronde era stato lo stesso Hun Sen, artefice della fine delle ostilità con la guerriglia dei Khmer rossi, ad essersi espresso contro un allargamento delle inchieste e dei processi mettendo in guardia tutti contro il rischio di una guerra civile e dicendo espressamente al segretario dell’ONU che non erano permessi altri processi.
Con questo nuovo processo si apre una fase molto importante per la comprensione di uno dei periodi più neri della storia mondiale e saranno sotto processo i «quattro membri più vecchi ancora in vita del regime dei Khmer Rossi. Sarà il processo più grande e il più difficile sin dai tempi del processo di Norinberga» dice uno dei procuratori del processo.
Sarà secondo alcuni molto più lungo e difficile del precedente, con maggiori difficoltà di prova delle accuse della catena di comando. Considerata la avanzata età degli imputati e il loro cattivo stato di salute, sono in molti ad aver paura che questo processo non vedrà delle persone condannate, oltre alle paure che un tribunale così sottomesso al governo cambogiano non sia in grado di portare avanti pienamente questo processo.
La Cambogia ha una popolazione molto giovane e sono solo cinque milioni i cambogiani che hanno visto il regime dei Khmer Rossi, ma in molti hanno delle vittime nella propria famiglia. In tantissimi attendono una giustizia che quantunque arrivi sarà sempre in ritardo.
«I processi dei Khmer Rossi si stanno facendo nonostante le continue minacce di Hun Sen di portare fuori strada l’intero processo. Ha dichiarato che i processi porteranno a instabilità politica e persino alla guerra civile, ma non ci sono stati problemi. La sola ragione per cui i processi si fanno è poiché tanti cambogiani hanno rifiutato di seppellire il passato senza prima provare cosa sia un minimo di giustizia.» dichiara Adams di Human Rights Watch.