Anni prima che Bangkok fosse stata soffocata dal traffico e dai ponti, la gente del vecchio Siam usava il fiume Chao Praya come un mezzo di trasporto e di commercio.
Come un grande serpente, scorre per 372 chilometri da Nakhon Sawan, una piccola cittadina delle piane centrali Thailandesi, verso il Golfo Del Siam. Portandosi con sé il colore di una terra agricola fertile e dei campi di riso che esso nutre, il fiume (in thailandese Mae Nam, femminile) unisce alcuni dei templi e delle città antiche della Thailandia, compresa Ayutthaya che fu per quattro secoli la grande capitale del Siam, a Rattanakosin, i cuore storico di Bangkok.
I re del passato e i loro concittadini usavano fare visita a questi edifici religiosi in una processione di barche, ma oggi la maggior parte delle persone li visitano con un percorso di appena un’ora sull’autostrada.
Nella speranza di rivivere quei giorni di gloria del viaggiare lento, un gruppo turistico thailandese ha iniziato le corse tra Bangkok e Ayutthaya usando due barconi del riso in teak vecchi un secolo. Entrambi i barconi sono stati restaurati attentamente con pannelli di legno levigati, con spaziose stanze interne e aree esterne di riposo, cabine con aria condizionata, bagni privati e ciurma allegra dotata di un manager, un capitano, un cuoco ed un maggiordomo.
Ci imbarchiamo nel Anantara Dream di due cabine, ancorate presso quello che era il Marriot ed ora Anantara Bangkok Riverside Resort, navigando attraverso la frenesia e lo smog mattutino della città. Tassì rossi e gialli sottili come matite, addobbati con ghirlande color gelsomino, si muovono scansando i traghetti che emettono fumi asfissianti e zattere da fiume che trasportano carbone trainate da rimorchiatori gialli. I turisti portati in giro si affannano a fare fotografie a questi vascelli antiquati. Sulla sinistra del barcone si adagia un pugno di hotel rivieraschi di lusso con le loro piscine blu cobalto che sfiorano l’acqua. Sulla destra, condomini enormi si innalzano sui ristorantini sul fiume che servono quelle infernali insalate thailandesi con pesce grigliato salato pescato dall’oceano, a qualche chilometro più a valle.
Ci fermiamo ad un tempio che li supera tutti in età. Con le sue mura bianche di stucco e un tetto color giallo girasole sormontato da spire dorate, il tempio Kalayanamit Varamahavihara sembra di primo acchito uno dei tantissimi templi buddisti disseminati per Bangkok. Ma ad uno sguardo più attento è incredibilmente cinese. Fu costruito dai commercianti cinesi agli inizi del diciannovesimo secolo e si credeva che solo dopo aver oltrepassato i cancelli di pietra, guardati da semidei taoisti, si poteva considerare terminato al sicuro il viaggio verso casa. Fu costruito durante la rapida espansione coloniale in Asia, quando erano molti i thailandesi a vedere la crescente influenza cinese a Bangkok come un antidoto a quella degli europei.
Di fianco ci sono le inconfondibili spire di color grigio acciaio del Wat Arun, conosciuto anche come il Tempio dell’Alba, costruito come una pietra di riferimento durante il periodo di Ayutthaya per allertare i marinai che erano giunti a Bangkok. Rassomiglia al Monte Meru, la montagna al centro dell’universo nelle filosofie buddiste e induiste.
Mentre continuiamo a salire per il fiume, un colossale piatto di Pad Thai, piatto legendario di spaghettini cinesi con uova, germogli di aglio, tofu e gamberi, è servito nella stanza da pranzo. Sarebbe bello sedersi fuori ma la temperatura ha toccato valori oltre la trentina di gradi ed il sole ha trasformato il ponte in una sauna.
I grattacieli alla fine lasciano il passo alla periferia con le colorite case di legno sulle palafitte che si affacciano cautamente sul fiume, con i loro balconi straboccanti di buganvillea e frangipani. I bambini pescano dai vecchi pontili di legno. La barca si ferma a gettare molliche di pane a branchi di pescigatto giganti che nuotano di fronte ad un tempio. Il buddismo thailandese theravada proibisce di uccidere e sembra che i pesci qui sanno di essere salvi dall’esca dei pescatori.
Il Chao Praya non è un bel fiume. Piatto, monotono e, nel suo tratto più basso, disseminato di cementifici che sputano polvere bianca, non può rivaleggiare col Mekong. A fatica i barconi passano sotto vari ponti, perché il fiume è gonfio delle piogge monsoniche che hanno causato danni tremendi ad Ayutthaya e nella periferia settentrionale di Bangkok. Bisogna aspettare il tramonto del sole e che la barca sia ancorata per la notte per poter reclamare una sedia del ponte e con una bottiglia di vino godersi la serenità e la pace del fiume.
Quando Re U Thong stabilì la capitale ad Ayutthaya nel 1350, scelse il sito alla confluenza fausta di tre fiumi, Pa Sak, il Chao Praya e Lopburi, costruì un piccolo canale attorno alla città trasformandola in una isola facilmente difendibile.
Ayutthaya fiorì e nel suo periodo di maggior splendore del sedicesimo secolo, erano disseminati più di 500 templi dalle spire dorate per la città isola, insieme a palazzi espansi, ettari di chedi di mattone, usati come elementi funerari, e tantissime statue di Budda di oro e di giada . La posizione della città, a metà strada tra Cina, India e l’arcipelago malay, la rese un mercato popolare per la seta, il tè e le spezie. I dignitari olandesi, francesi e indiani costruirono qui le loro missioni e con una popolazione di un milione di persone Ayutthaya era una delle città più grandi al mondo.
Nel 1767 Ayutthaya fu attaccata dalla dinastia birmana di Konbaung, un vecchio rivale del Siam. L’assedio durò un anno. Quando alla fine la difesa della città capitolò, le armate birmane invasero la città con uno squadrone di elefanti. Violentarono, saccheggiarono e misero a ferro e fuoco Ayutthaya distruggendo questi amabili vecchi templi e palazzi, distruggendo le statue del Budda e pendendosi l’oro e le gemme. Devastata dalla distruzione, l’impero siamese mosse la sua capitale a Rattanakosin che è la Bangkok di oggi.
Dei 500 templi originari di Ayutthaya rimangono le tracce di solo 168 templi, dispersi su una estensione piatta costeggiata da canali e fila di alberi che precedono l’attacco birmano. La città persa non ha lo splendore della prima capitale siamese, Kukhothai, a nord, oppure di Angkor in Cambogia. Né i resti si trovano in buone condizioni con il cemento che è stato largamente usato per restaurare molti templi e le radici di alberi si aprono la strada tra le mura di altri templi.
L’alluvione di ottobre ha depositato montagne di detriti per i templi e gli stupa, indebolendo ulteriormente le fondazioni. Ma nonostante l’abbandono, è impossibile non sentirsi intimoriti da quello che un tempo giaceva qui, dalla pura dimensione e grandezza delle sale di ricevimento, dal grande numero di chedi e dalla maestà delle statue di Budda, dai loro volti calmi e sereni nel mezzo delle macerie. Puzza di tristezza e rammarico, di tragedie e glorie passate.
Si può passare facilmente una settimana ad Ayutthaya, uscendo la mattina presto e il pomeriggio tardi per evitare il sole cocente del meriggio e le file di turisti nei bus. Si può visitare il chedi con le ceneri della regina Suriyothai, la grande femminista che in una delle battaglie contro i birmani si vestì da uomo per lottare insieme a suo marito a cui salvò la vita con la sua morte.
Wat Phananchoeng costeggia la confluenza dei fiumi e ha la statua di Budda lata diciannove metri. Fu costruita nel 1324 prima del periodo di Ayutthaya ed è sempre addobbata con i bastoncini accesi di incenso di chi esprime un desiderio, seduto con le gambe messe da un lato e le mani giunte a recitare i mantra.
Più a meridione, il palazzo di estate di Bang Pa In fu istituito come un ritiro reale per i Re di Ayutthaya. Restaurato e ingrandito dall’attuale Re Bhumibol, ha l’aria in questi giorni più di un palzzo dell’ONU alla Disney, con uno zoo pieo do siepi alla Versailles tagliate a forma di animale, uno chalet svizzero e un brutto palazzo cinese a due piani presentato dai commercianti cinesi a Re Chulalongkorn nel 1889. Su un lato lontano del canale un tempio buddista ha le finestre, i tetti della cattedrale e ritagli barocchi dorati.
Dopo aver assorbito tutto, ci reimbarchiamo e, godendoci il té con panini e torta di mango appena fatta, lentamente riscendiamo il fiume. Passiamo le industrie che sputano fumi e i tanti ponti ed un grattacielo costruito a forma di elefante. E’ un mondo lontano dalla saga di Ayutthaya e dalla grazia del vecchio Siam.