La fretta con cui il governo di Yingluck Shinawatra sta spingendo per una legge di amnistia mentre non è ancora conosciuta completamente la verità degli eventi di quei due mesi di violenza politica di aprile e maggio 2010, non è prudente, secondo Elisabella Polenghi, la sorella di Fabio Polenghi, il fotografo italiano ucciso durante la repressione a Bangkok che costò la vita a tantissime altre persone.
Fabio morì il 19 maggio del 2010 mentre riportava di quella violenta repressione delle forze armate thailandesi che pose fine alla protesta delle magliette rosse.
Elisabetta ha fatto già cinque visite a Bangkok dai giorni della tragedia nella speranza di accelerare le indagini sulla morte di Fabio per dare una risposta a ciò che è avvenuto in quel tragico periodo.
“Non sono d’accordo con questa spinta a fare l’amnistia. Almeno dovremmo sapere cosa successe in quell’importante periodo storico della Thailandia. Io non cerco la vendetta, non voglio neanche sapere il nome di chi ha ucciso mio fratello con un colpo soltanto. Ma voglio sentire dai protagonisti che erano responsabili che si erano sbagliati. Voglio che la gente coinvolta ammetta i propri errori.”
Benché fosse stata contattata per la compensazione finanziaria ed avesse avuto molti problemi nel comprendere, ha sottolineato che la famiglia non cercava una ricompensa finanziaria, quanto una ricompensa morale.
“Ho inviato una lettera al governo di Yingluck per cercare qualche modo di ricordare non solo la morte di Fabio, mio fratello, ma anche del giornalista giapponese Muramoto ucciso anche lui durante quello stesso periodo.”.
Una targa o un segno di qualche specie, l’intitolazione di un auditorio o di un’aula, in memoria dei giornalisti che sono stati uccisi mentre registravano la sollevazione storica, per ricordare dei rischi che questi professionisti corrono per portar l’informazione al mondo.
“Almeno vorrei dire al mondo che, nonostante tutte le brutte cose che accadono, i governi che seguono hanno in cura la libertà di stampa e che questo servi come un ammonimento alla popolazione thailandese a non permettere che questo accada di nuovo.”.
In quello stesso periodo un altro italiano era presente a Bangkok e porta la sua testimonianza con un libro di quanto accaduto. E’ Claudio SOpranzetti e qui presentiamo di seguito la recensione del libro che ha documentato la rivolta. L’autore della recensione è uno storico importante della Thailandia contemporanea, Chris Baker.
Questo libro inizia tra le macerie dopo le violenza del 19 e 20 maggio del 2010. I restanti dimostranti sono esauriti dalla lunga campagna, demoralizzati dalla violenza che gli si è rivolta contro, e totalmente provocatori. Claudio Sopranzetti accompagna un gruppo sul treno che li porta a Udon.
“Non è ancora finito, non siamo neanche alla metà. Torneremo.” continuano a ripetere. Lentamente si rilassano, sfogano la loro rabbia, si raggruppano e si ubriacano. Non ceto eroi o terroristi.
Sopranzetti fa notare che non sono i poveri identificati dai titoli dei giornali, quanto una classe media più bassa con lavoro, case buone, macchina e qualche proprietà.
Sono loro stessi ad ammettere che stanno meglio di prima, ma questo li rende più risentiti delle ineguaglianze e delle gerarchie con cui devono convivere.
Sopranzetti con tatto indaga sulle motivazioni per aver lasciato casa e prendere parte a questo evento. “Quello che per noi è la democrazia è equità. Vogliamo equità in tre modi, legale, politica e dell’istruzione.”
Claudio è giunto in Thailandia per una ricerca di dottorato in antropologia. Si è appassionato ai tassisti di motociclette come una parte unica della società, della mobilità e della politica di Bangkok.
Ha seguito i suoi soggetti nelle proteste del 2010 e ha cominciato a scrivere un blog quotidiano, giovanile, con i suoi articoli appena editati così da non perdere l’immediatezza e la ruvidità.
Non aggiunge nessuna pietra del suo retroterra, nessuna nota di quelle poche persone di cui dice il nome e degli eventi passati, e solo un piccolo editoriale. E’ una macchina fotografica parlante. Mentre si muove nella protesta, stiamo seduto sul sedile posteriore ed origliamo i suoi colloqui con le magliette rosse, i soldati, i passanti.
La seconda parte inizia dopo le morti al Ponte Phan Fa del 10 aprile 2020.
Il libro tralascia la fase iniziale della protesta con la sua atmosfera di gioia ed ottimista, ed inizia nel punto in cui sembrava destinato a finire amaramente, come sempre.
Per tre settimane Sopranzetti registra la normalità assurda della città della protesta fondata improvvisamente nel cuore commerciale della capitale: le persone che fanno la fila e pagano per ottenere una carta d’identità come un rituale di impegno del manifestanti; la pura monotonia nei discorsi senza fine e prevedibili che formano il teatro della protesta; la frammentazione delle strade della Bangkok del centro in centinaia di piccoli accampamenti che sono ognuna casa per quelli che provengono da un angolo dell’Isaan; i deputati e i ricchi patroni che sostengono in modo discreto; la crescente complicità della polizia nel difendere la protesta contro l’aggressione dell’esercito; chi vendeva libri radicali e gli artisti di strada che formano un legame ideale alle storiche proteste del 1992, 1973; il ruolo prominente delle donne che hanno viaggiato fino alla capitale a partire da un senso di dovere “Lo facciamo per le nostre famiglie”; il senso della storia in divenire che trova la gente a raccogliere proiettili sparati come ricordi, a fare infinite foto con i cellulari, a costruire sacrari nei luoghi di morte e nel volere “almeno una volta essere parte della storia, toccarla, farla”.
Dopo l’uccisione di Seh Daeng il 13 maggio, i libro entra in una terza parte, più oscura. Sopranzetti registra meno conversazioni. Invece è trafitto dal panorama cambiato della città.
Barricate e blocchi negano il costante movimento che è l’essenza della città. La zona della protesta a Ratchaprasong è isolata oltre una terra di nessuno fatta di strade vuote con scontri sconnessi. L’ineguaglianza di chi si scontra riflette la politica. Contro l’acciaio dei carrarmati e dei fili spinati, i manifestanti erigono barriere medioevali di paletti di legno.
Contro i fucili dei cecchini i manifestanti mettono in campo i fuochi di artificio, bruciano gomme e molotov, tutti mezzi che riproducono il suono e i fumi delle armi senza fare alcun danno. Il confronto politico come umorismo nero. Il finale non è mai in dubbio, solo il momento che avverrà.
Nel finale Claudio trova un modo tra le barricate il 20 di maggio per ritornare al luogo abbandonato della protesta. Alla vista delle macerie contro lo sfondo della carcassa abbattuta e gocciolante del Central World, la macchina fotografica parlante si blocca:
“Toglie il respiro. Sconfigge il linguaggio”
Il libro non è una storia di guerra. Al rumore delle armi, i fotogiornalisti corrono sul luogo dell’azione, ma Sopranzetti va a casa a dormire. Manca tutti gli eventi della storia, Phan Fa, Seh Daeng, la repressione finale dell’esercito e gli incendi. Invece rivela il groviglio di speranza e paura vissuta da chi ha preso parte. Non offre alcuna tesi sul perché delle dimostrazioni o quello che hanno ottenuto. Cattura invece un senso di gente molto ordinaria trascinata in eventi molto straordinari per ragioni che appena riescono a capire aldilà di un risentimento verso le profonde ineguaglianze di una società ed un accenno che la storia si occupa ora di loro.
La tesi del libro è che questa partecipazione di massa era la grande storia di questo evento, e chi come i democratici che si fissano invece sulla violenza sono condannati a non comprendere il presente e forse ad autoescludersi dal futuro.
E’ un piccolo libro brillante, emozionante, che apre la visione, inquietante. Due anni dopo, serve come un avvertimento. La ferita su Central World è stata curata, ma è stato fatto poco per comprendere i risentimenti che bruciano sotto questo movimento
Bangkokpost