La trasformazione dei chicchi in caffè è un procedimento unico a Jolo, l’isola principale distrutta dalla violenza dell’arcipelago delle isole Sulu.
I coltivatori stendono i chicchi sulla strada in modo che gli automezzi dell’esercito che trasportano truppe o i mezzi pubblici passano sopra e li rompono, come presse giganti, per rimuovere la polpa.
E’ una bella differenza dai bei tempi della produzione del caffè nelle Filippine, circa 200 anni fa quando era la quarta nazione al mondo per la produzione del caffè. Il paese è stato sorpassato dal Vietnam come principale produttore in Asia ed ora produce appena 0,12% della produzione mondiale del caffè.
Non sono Starbucks. I produttori della catena di Sulu sono persino nel fondo della lista di produttori di caffè nelle Filippine. L’acquisto di un sistema appropriato per macinare il caffè toglierebbe di mezzo il bisogno di far rompere i semi sulla strada ed attendere tutta la giornata affinché i veicoli facciano l’operazione di togliere la polpa.
Finora non ne hanno una. Ma per quanto piccoli che siano e per quanto primitivo il modo di fare, i contadini di caffè della cooperativa di Sulu sperano di dare qualche il loro piccolo contributo per uscire dalla povertà e dal ciclo delle violenze di parte che ha bloccato la catena della produzione per decenni.
A guidare i contadini di caffè a Sulu è una donna di sessanta anni, Putlih Kumalah Sug che prova a far girare il suo commercio e a tirarsi dietro i suoi amici contadini. “Dio mio, quello è il caffè che beviamo” dice di aver detto quando ha visto i contadini attendere il traffico veicolare sulla strada. Poi si interessò nel come fare un “caffè pulito”.
Sulu è uno dei centri della ribellione musulmana di lungo corso che un tempo costrinse Putlih Kumalah a lasciare l’isola dopo aver sposato un ufficiale dell’esercito cristiano nel 1980. Al suo ritorno nel 2007 dice di non aver notato molti cambiamenti. Ma, traendo ispirazione da una pubblicazione di un tecnico dell’agricoltura del suo municipio, le venne in mente che forse la coltivazione del caffè poteva essere una via d’uscita.
Organizzò tre anni fa qualche decina di agricoltori nel suo paesino per farli lavorare su un buon numero di alberi di caffè che crescono in abbondanza ma lasciati abbandonati nel terreno fertile delle isole.
“Non abbiamo alcun impianto accettabile qui” aggiunge ma vecchio sistema in legno per togliere la polpa che i contadini spostano di città in città, ma che fa calare la qualità del prodotto appena raccolto.
Il dipartimento di agricoltura ha appena due impianti di tostatura per l’intera provincia di 19 municipalità la cui produzione è cresciuta nei due anni scorsi dalle duecento tonnellate a circa le mille tonnellate annue.
Putlih Kumalah preferisce portare il suo prodotto a Manila per la tostatura e l’impacchettamento e venderli alla fine alle fiere di commercio ed altri negozi di prodotti locali. Ora anche compratori dalla Corea e dall’Arabia hanno manifestato il loro interesse.
Questo ha dato ai membri della cooperativa, L’alleanza popolare per il Progresso, un’entrata di almeno 70 mila peso (1500 euro) l’uno per una produzione stagionale stimata di 30 tonnellate di caffè, una cifra difficile da guadagnare in villaggi, percorsi dalla guerra, dove il lavoro se ne trova poco. Le differenze si toccano.
La capanna dove vive, un ex campo di addestramento degli insorgenti, mostra un’immagine più luminosa delle altre parti di campagna dell’isola. Le case sono di color pastello e decorati con motivi islamici e la comunità ha cominciato a trovare i modi per migliorare le entrate raccogliendo risorse per la coltivazione, per mandare i figli a scuola, per farsi le proprie infrastrutture per l’acqua ed altri bisogni fondamentali quando i servizi del governo non riescono a farsi vedere nella vita di ogni giorno.
E’ iniziata una tendenza verso il caffè, parte primaria della cultura musulmana qui a giudicare da vari caffè improvvisati in città, un tempo luogo di incontri sociali prima dello scoppio della ribellione nella metà degli anni 70. Un curatore di un museo locale dice che fu qui che i missionari arabi introdussero per la prima volta il caffè nel XIV secolo molto prima che arrivassero sule sue coste i colonizzatori spagnoli.
Jodl Isahac, un attivista e coordinatore del Philippine Coffe Alliance nella regione autonoma musulmana si sta dando da fare per convincere i contadini musulmani a prender seriamente in considerazione la loro produzione di caffè come strumento per risolvere la loro povertà. “I contadini dovrebbero vedere la differenza tra il raccogliere le bacche rosse, separate dalle bacche ancora verdi e fare invece come fanno ora” Per la paura che possano scoppiare imprevisti scontri armati i contadini hanno imparato a fare un solo grande raccolto dagli alberi poiché non sapevano quando sarebbero potuti tornare. Hanno dato il nome armalite, secondo il nome del fucile M16 americano che si andava rapidamente diffondendo negli anni 70, la cui vista e il cui suono erano molto conosciuti nei villaggi.
Tutto questo insieme al trattamento complessivo di toglier la polpa e tostarlo, secondo Isahac, metteva in mostra i difetti nella qualità del caffè quando lo si beveva a Manila. Ma sorprendentemente scoprì che era privo di difetti della pianta grazie all’ambiente isolano largamente incontaminato.
I contadini di Sulu non davano molta attenzione al caffè considerandolo secondario per il loro sostentamento e preferendo guadagnare dal raccolto di frutta esotica. Di solito vendono i semi al commerciante che li compra ad un prezzo tra i 40 perso ai 120 peso al chilo per essere venduti alle grandi imprese fuori della provincia tra le quali la multinazionale Nestlè. La produzione di Putli
h Kumalah produce anche una qualità di caffè molto ricercato preso dalle escrezioni della civetta che può costare almeno 300 peso per tazza a Manila. I caffè di Sulu sono del tipo Robusta e Liberica.
Ci sono circa mille contadini coinvolti nella produzione del caffè su una superficie di 2400 ettari in un’area che è per gran parte rifugio dell’insorgenza musulmana e delle loro famiglie. Le aree maggiori della piantagione che produce il 37% del raccolto si trovano nella città di Patikul, una tana conosciuta del gruppo di Abu Sayaff molto noto per i suoi attacchi terroristici e per i rapimenti.
“Insegnare loro il modo giusto richiederà del tempo.” dice Isahac che crede che il caffè sosterrà un giorno l’economia dell’isola. “Se apprendono il suo valore e si dà loro il prezzo giusto, impareranno a curare il proprio caffè ed ad esserne orgogliosi.”
Coffee and Hope in Violence-Wracked Sulu di Criselda Yabes