Segui l’America e salva il paese, segui la Cina e salva il partito, è un detto che si sente dovunque in Vietnam e condensa il dilemma politico che si trova di fronte il partito comunista al governo.
Dopo quarant’anni dalla cacciata delle truppe americane dal Vietnam, il partito che conquistò l’indipendenza ed unificò il paese ha perso gran parte della propria legittimazione. Tutto il risalire alle virtù di Ho Chi Minh e al partito del tempo, sembra che riesca a sradicare la corruzione sistemica. La colpa più grossa del regime è il fallimento di sistemare un’economia incerta, ma l’opinione pubblica è anche sdegnosa della sua incapacità di difendere gli interessi del paese contro la Cina.
Dalla prospettiva dell’uomo comune di Hanoi o Ho Chi Minh Ville Pechino si è liberata della maschera della “Crescita pacifica” ed è tornata al suo storico ruolo di prepotente della regione. La sua rivendicazione farsesca delle risorse marine e minerarie dell’intero mare cinese meridionale è solo l’esempio più chiaro. La costruzione in Cina di una cascate di dighe sulla parte settentrionale del Mekong nella provincia dello Yunnan e il sostegno al piano per costruire 11 dighe sul corso del Mekong in Laos minaccia di cancellare i flutti annuali che sostengono la fertilità della regione del Delta del Mekong.
Le imprese cinesi perseguono anche le risorse minerarie e di legno del Laos sfidando l’egemonia vietnamita proprio nella sua aia. Nel Vietnam stesso i crescenti investimenti da parte delle imprese di ingegneria, di costruzione e minerarie cinesi, come la Chinalco con un progetto immenso di bauxite nelle alture centrali del paese, ha attratto tantissime critiche. Beni poco costosi e talvolta scadenti hanno inondato il mercato vietnamita piegando la manifattura locale.
L’uomo comune vuole rispondere. Non gli importa che le forze armate vietnamite non possono rivaleggiare quelle cinesi, o che il Vietnam è fortemente vulnerabile alle vendette economiche cinesi. Gli analisti occidentali attribuiscono la “positività cinese” ad un nascente nazionalismo e alle agenzie della sicurezza troppo zelanti, ma per il vietnamita della strada è chiaro che l’aggressione cinese è coordinata con Pechino.
Nulla di nuovo: il tema maestoso della storia nazionale, quello che tutti imparano a scuola, è la resistenza ostinata e alla fine vittoriosa contro gli invasori. E la maggior parte delle armate che hanno passato la frontiera vietnamita per due millenni erano quelle cinesi. Non c’è ragione perché ora non dovrebbe essere così.
I due paesi condividono molto di più di una frontiera di 1350 chilometri. Sono paesi leninisti con una cultura politica forgiata dall’idea neoconfuciana della gerarchia di merito e con relazioni ben oleate. I loro partiti comunisti sono sopravvissuti liberandosi dell’economicismo marxista mentre mantenevano un apparato statale pervasivo. Le loro economie da mercato socialista permettono a liberi mercati vibranti di vivere insieme a migliaia di imprese statali che dominano l’industria pesante.
Sia Pechino che Hanoi sono tormentati dalla critica attiva dei dissidenti che possono avere connessioni internet. Questi fattori politici e culturali sostengono una rete a livello di partiti e di stato miranti a sostenere la cooperazione tra i due regimi.
Eppure le relazioni bilaterali sono sempre stati di norma spinose. Il peso economico e geopolitico maggiore della Cina implica che la relazione con Vietnam è fondamentalmente ineguale. Quando i cinesi prestano attenzione al Vietnam la considerano come una provincia di valore che talvolta si allontana dal suo ormeggio. Di converso i 90 milioni di abitanti vietnamiti sono sempre scomodamente coscienti del loro vicino settentrionale che ha un’economia almeno 50 volte maggiore ed una popolazione più grande di 15 volte. Eppure i vietnamiti non si inginocchieranno a Pechino quando si parla di integrità territoriale. Ad eccezione di Ho Chi Minh, i grandi eroi vietnamiti sono generali che hanno costretto le tante dinastie cinesi di invasori a ritirarsi. Non più tardi del 1979 morirono 20 mila soldati cinesi quando Deng XiaoPing provò a dare una lezione al Vietnam perché avevano rovesciato il regime maoista dei Khmer Rossi in Cambogia ed avevano stretto un’alleanza con l’Unione Sovietica.
Ma negli anni 90 i due paesi sono ritornati ad una relazione relativamente confortevole. Preoccupate entrambe per le loro riforme economiche interne e con la disintegrazione dell’Unione Sovietica, la Cina pubblicizzava la “sua ascesa pacifica” presso l’ASEAN che ora include il Vietnam. Il commercio bilaterale si espandeva e i negoziati per segnare i confini terrestri andavano bene. Anche le rivendicazioni opposte per la proprietà delle barriere coralline nel mare cinese meridionale sembravano essere gestite bene se non quasi risolte.
Tutto comunque cambiò nel 2009. Per disegno politico o per errore diplomatico, la Cina non si contentava più di lasciare stare le richieste opposte. Nel maggio di quel 2009 la Cina presentò una mappa all’ONU reclamando “sovranità indiscutibile” sulla stragrande maggioranza del Mare cinese meridionale. Le tensioni salirono enormemente attirando potenze non regionali come gli USA e sfidando la coesione dell’ASEAN. Vietnam e Filippine hanno subito l’offesa di una spinta cinese a creare dei “fatti” che, benché incompatibili con la legge internazionale, sono difficili da respingere. Le passioni nazionaliste ribollono in tutti e tre i paesi minacciando scontri armati marini e la politica di Hanoi di procrastinare con la Cina è in brandelli.
In tanti della elite non legata al partito, ma anche di tanti nel partito, credono che la soluzione sia di cercare un’alleanza economica e militare con gli USA. Tuttavia i capi anziani restano fortemente scettici delle intenzioni americane, considerandosi come bloccati in un conflitto esistenziale con il liberalismo occidentale, capitalismo e imperialismo. Hanno accettato solo con ritrosia le riforme miranti a stabilire una competitività economica globale del paese ed a iniziare con gli USA un’opera di bilanciamento verso la Cina. I sostenitori del partito non accettano le richieste americane di maggiore libertà democratica temendo che il vero obiettivo americano sia di abbattere il regime comunista. Nonostante le recenti frizioni non credono che la Cina possa tradire un partito comunista così simile al loro.
A dire il vero di questi tempi la Cina è molto meno interessata a tenere al potere i partiti comunisti, quanto a sfruttare le risorse regionali ed ad estendere i suoi tentacoli economici. Con i suoi grandi crediti all’esportazione e l’eleggibilità a prestiti da parte di banche di stato, le imprese cinesi sono diventate i più importanti attori dello sviluppo infrastrutturale vietnamita, specie nella costruzione di impianti energetici termici. Le ditte vietnamite non stanno cacciando furori le imprese vietnamite quanto prendono il lavoro dai competitori giapponesi, coreani, americani ed Europei attraverso le gare a ribasso. Ma i critici accusano le imprese cinesi di impiegare personale cinese e produrre lavoro di bassa qualità, mentre si hanno frequenti scadenze mancate e costi maggiorati. I falchi della sicurezza vietnamita asseriscono che la dipendenza da costruttori cinesi nei settori strategici come l’energia mina la sicurezza nazionale.
Un altro oggetto della contesa è il crescente deficit commerciale con la Cina che l’economista Tran Van Tho definisce uno “tsunami industriale”. La bilancia commerciale con gli altri paesi dell’ASEAN e il Giappone è quasi alla pari, mentre ha un grande surplus con l’Europa e gli USA. Ma con la Cina, che è anche il maggior partner commerciale, il deficit ha raggiunto oltre i 16 iliardi di dollari nel 2012 con un surplus cinese del 40%.
La gran parte delle esportazioni cinese sono beni intermedi da assemblare nelle fabbriche di esportazioni, ma la Cina offre anche beni capitali più costosi come i macchinari per le industrie e per le infrastrutture. Un’altra componente visibile sono i beni di consumo che hanno un prezzo che taglia fuori i competitori locali. I giornali vietnamiti presentano regolarmente storie di beni di consumo cinesi a prezzi bassissimi o di basso valore, e di movimenti provocatori di Pechino nel mare cinese meridionale che alla fine terminano tutti in una richiesta di boicottaggio delle merci cinesi.
Ma non è quello che si voleva. Secondo le previsioni il Vietnam avrebbe dovuto sconfiggere Guangdong. A causa dei costi del lavoro più competitivo in Vietnam, il Vietnam sarebbe stata la logica destinazione per quelle imprese che avrebbero dovuto migrare dalle zone di esportazione cinesi verso climi meno costosi. Le industrie della confezione ad alta intensità di manodopera e quelle delle scarpe hanno sempre costituito il 20% dell’esportazione vietnamite, quando negli anni 90 le esportazioni cinesi erano frenate dallo schema delle quote in Europa e in USA.
Eppure la produttività del lavoro resta bassa, l paghe reali sono cresciute al 10% annuo dal 2006 al 2011 e il Vietnam non è riuscito ad attrarre la manifattura dalle loro basi in Cina. Mentre il costo del lavoro continua a crescere sia in Cina che in Vietnam, le imprese emigrano in Cambogia, Bangladesh e persino Birmania. Non sono tutte notizie cattive. Mentre l’economia globale si riprende pian piano il settore legato all’investimento estero cresce di nuovo. Piuttosto che spostarsi dalla Cina molti investitori hanno diversificato la loro base manifatturiera aprendo altre fabbriche in Vietnam con un’apparente tendenza verso investimenti di qualità superiore che possono beneficiare di facilitazioni fiscali.
Imprese che stabiliscono o espandono le loro fabbriche includono nomi come Canon, Samsung, Intel e IBM, Hitachi, Panasonic e Nokia. Eppure quasi tutte le merci in entrata per le esportazioni manufatte in Vietnam sono importate, molte dalla Cina. Tutto quello che si aggiunge in Vietnam è il lavoro di solito, ma talvolta la Cina lo fa meglio e su scala maggiore.
Nel 2008 sfruttando una fase più favorevole delle relazioni, il capo del partito cinese Hu Jintao e l’analogo vietnamita Nong Duc Manh dichiararono una cooperazione comprensiva strategica bilaterale. E se la Cina è davvero interessata nel coltivare una relazione speciale con Vietnam, e quindi rafforzare il suo muscolo diplomatico nel Sud Est Asiatico, Pechino è in una posizione di aiuto.
Sebbene i governati vietnamiti ammettano che non sono ansiosi per lo sbilancio commerciale, è anche una responsabilità politica cronica. La Cina importa molto caucciù, carbone, petrolio e prodotti agricoli ma non è interessata ai prodotti industriali vietnamiti, Mosse amichevoli per accrescere le importazioni industriali dal Vietnam costerebbero poco alla Cina e sarebbe una buona notizia per Hanoi.
Soprattutto una proposta sincera per uno sviluppo congiunto di risorse minerarie e di cogestione della pesca nelle aree contese del Mare Cinese Meridionale potrebbe fare la differenza sia per le relazioni con Vietnam che con l’ASEAN.
Eppure la realtà è che le relazioni tra Pechino e Hanoi sono diventate sempre più pericolosamente instabili sin dall’accordo del 2008. La pressione cinese sulle questioni strategiche e politiche hanno racchiuso i capi del Vietnam minacciando la loro sopravvivenza. Pechino ha accresciuto la propria statura tra i nazionalisti cinesi mostrando i muscoli nel mare cinese meridionale, mentre i tentativi inefficaci vietnamiti di parare le provocazioni cinesi hanno progressivamente eroso la propria posizione tra i propri nazionalisti.
Conflitto armato a parte, è difficile immaginare cosa di più possa fare la Cina per accelerare la caduta dei suoi possibili amici e alleati ideologici nel regime del solo altro mercato socialista al mondo. Con tutta probabilità porterebbe a nuovi capi che cercherebbero un avvicinamento con gli USA, un risultato negativo.
Più preoccupante però è che un conflitto non è proprio fuori questione. La Cina ha una potenza di fuoco largamente superiore alla Vietnamita, ma il Vietnam sta migliorando di molto le sue capacità aeree e navali. Costretti con le spalle al muro, la storia insegna che il Vietnam risponderà. Un cattivo calcolo da entrambe le parti potrebbero comportare uno scontro che sarebbe duro e sanguinoso con conseguenze imprevedibili. La Cina può continuare a fare il bullo, ma gioca col fuoco.
David Brown