Lungo il fiume inquinato Mahakam, nel Kalimantano Orientale del Borneo indonesiano, si vedono scendere barconi carichi di carbone a pochi minuti l’uno dall’altro. Se li si guarda dall’alto, formano una linea nera a punti che si perde nello spazio. E’ il carbone destinato alle centrali a carbone in Cina ed India.
Una corsa al carbone ha attratto minatori di tutto il mondo nel Kalimantano Orientale e ha fatto scempio della sua capitale, Samarinda, che rischia di essere fagocitata dalle imprese minerarie se lo sfruttamento dei suoi depositi si dovesse espandere ancora.
Le miniere occupano oltre il 70% di Samarinda, come mostrano i dati del governo, e costringono villaggi e scuole a spostarsi in altre parti, lontani da fanghi tossici e acque di falda inquinate. La distruzione della foresta intorno alla città che apre la strada alle miniere ha anche rimosso un ostacolo naturale alle alluvioni che, nei sei mesi di stagione dei monsoni, frequentemente portano l’acqua a livello dei fianchi.
E nonostante i 200 milioni di tonnellate di carbone estratto e imbarcato ogni anno dai porti del Kalimantano Orientale, la capitale è paralizzata da interruzioni di corrente elettrica che durano ore perché la sua centrale elettrica soffre di problemi continui.
Il contadino Komari, che ha solo un nome, vive sin dal 1985 in un angolo di Samarinda a mezz’ora dal centro cittadino e sopravvive coltivando riso e praticando l’allevamento dei pesci. Ma le miniere mi hanno avvelenato l’acqua che usavo nei campi e quella dei piccoli stagni, dice.
“Il riso cresce essenzialmente in acqua avvelenata” dice l’uomo che ha settantanni, eretto nelle sue risaie, con i piedi immersi in una fanghiglia bruna vicino alla capanna di legno fatta di una stanza dove vive con sua moglie. “Lo mangiamo ancora ma penso che sia abbastanza cattivo per noi” ed aggiunge che l’acqua che beve gli dà problemi alla pelle.
Kamari, unitamente ad altri 18 contadini come lui, ha denunciato i responsabili del governo accusandoli della contaminazione delle loro fonti di acqua e di permettere lo sfruttamento minerario incontrollato.
Non ricercano il risarcimento, ma chiedono invece di obbligare una compagnia del carbone vicino alle loro case di decontaminare l’acqua e dare loro dei servizi sanitari.
Udin possiede una auto a noleggio che guida a Samarinda, dove nacque trenta anni fa. Racconta che la città di oggi si è totalmente trasformata. “Quando ero bambino, casa mia era una giungla con gli orangutan e tanti uccelli di tutti i colori. Ma ora è scura.” dice Udin.
Secondo Jatam, un gruppo che rappresenta le comunità colpite dalle attività minerarie per tutta l’Indonesia, la radice del problema è ovvia: sono i rappresentanti locali che stanno riempiendo i loro portafogli con le mazzette da parte delle compagnie in cambio della garanzia dei permessi per operare le miniere.
“Un sacco di corrotti ha causato questo a Samarinda. Li possiamo definire la mafia delle miniere.” dice Merah Johansyah che fa parte dell’associazione a Samarinda.
Jatam e Indonesian Corruption Watch di recente hanno denunciato un caso all’agenzia anti corruzione del paese, secondo cui una impresa indonesiana, Graha Benua Etam, nel 2009 comprò il vecchio responsabile del dipartimento locale dell’energia e delle miniere in cambio di un permesso.
Secondo la loro denuncia passarono di mano 340 mila dollari nella compravendita e che del denaro passò di mano al vecchio sindaco per il sostegno nella sua campagna elettorale.
Le mazzette si pagano per qualcosa in più dei soli permessi, dice Johansyah. Sostiene che che aiutano le compagnie ad esplorare aree in cui non dovrebbero operare ed permettono di evitare obblighi come la consultazione delle comunità e il portare avanti le valutazioni di impatto ambientale.
L’applicazione della legge è spesso un problema per tutto questo arcipelago che si stende su oltre 17 mila isole dove il potere è fortemente decentralizzato e lascia anche molto a desiderare.
I militanti ambientalisti sostengono che le imprese hanno ignorato i propri obblighi di colmare le buche delle miniere profonde abbandonate una volta che finiscono le loro attività. Tra il 2011 e il 2012 sono morti oltre dieci persone tra i quali sette bambini, per essere caduti in queste buche secondo il resoconto dei media locali.
La brutta immagine di Samarinda è una cosa totalmente lontana da quella che era un tempo, una giungla lussureggiante con orangutan e tanti uccelli esotici, tipi ci del Borneo.
Ed è una storia che si ripete per tutta l’isola del Borneo, la terza isola più grande al mondo che un tempo era quasi interamente coperta di alberi ma che ora ne ha persi quasi la metà, secondo il WWF.
Come succede in Amazonia, la foresta tropicale sul Borneo agisce come una spugna che assorbe il Carbonio sotto forma di anidride carbonica che provoca i cambiamenti climatici dall’atmosfera.
Secondo un rapporto della ONG World Development Movement la corsa al Carbone si sta diffondendo verso le parti meglio conservate del Borneo come il Kalimantano centrale.
In quella provincia la foresta è quasi del tutto intatta ma le compagnie come la anglo australiana BHP Billiton hanno fatto dei piani per cominciare ad estrarre il carbone. La BHP sostiene che ogni sviluppo che porta avanti nel Kalimantano “sarà soggetto ad una valutazione di impatto ambientale e sociale dettagliata”.
Eppure, nonostante la distruzione il Borneo continua ad attrarre amanti della natura da tutto il mondo per vedere le più antiche foreste tropicali del pianeta e le sue 1400 specie animali e i suoi 15mila specie di piante.
Ma secondo i movimenti ambientalisti, ben presto forse si rischia che non rimanga nulla da vedere se la devastazione ambientale continua questa velocità.
Angela Dewan, Jakartaglobe