Alcuni giorni prima delle elezioni generali di Novembre del 2015, fu chiesto ad Aun San Suu Kyi come avrebbe affrontato la repressione atavica della minoranza musulmana dei Rohingya, se il suo partito avesse vinto le elezioni. Lei rispose: “C’è un detto birmano che dice: Devi rendere piccoli i grandi problemi, quelli piccoli scompaiono”.
Meno di un anno dopo dalla vittoria schiacciante del NLD, il grande problema dei Rohingya è diventato ancora più grande. E’ scoppiata la violenza nello stato occidentale Rakhine dove vive la grande maggioranza dei Rohingya, e Aung San Suu Kyi, che è stata già attaccata per apparire indifferente alle loro sofferenze, è ora accusata di restare silenziosa di fronte ai chiari abusi.
Parte della critica è meritata, ma parte no, ed il governo del NLD è comprensibilmente irritato. Ma ha lanciato così tanto fango a militanti e media indipendenti quanto loro lanciavano le proprie accuse. Tutto questo però è servito a nascondere solo le esasperanti complessità della situazione nello stato Rakhine.
Aung San Suu Kyi, dopo decenni di governo militare, ha ereditato un problema apparentemente intrattabile e bisogna comprenderne le specificità, se si vuole avere una possibilità di aiutare in modo efficace i Rohingya.
Dopo decenni di tensioni, uno scoppio di violenze settarie nel 2012 ha creato una separazione tra le comunità musulmana e buddista dello stato Rakhine. Oltre 120 mila persone, per lo più Rohingya, restano dislocate dentro lo stato. Gran parte del milione di Rohingya, a cui è stata negata la cittadinanza e a cui sono stati tolti i diritti prima delle elezioni del 2015, non hanno adeguato documenti di identità. Restrizioni al movimento nella parte settentrionale del Rakhine taglia l’accesso della gente al lavoro, ai servizi pubblici fondamentali e alle libertà religiose.
Questa situazione già disperata si è infiammata lo scorso ottobre quando nove membri della polizia di frontiera furono uccisi in attacchi contro le loro posizione sulla frontiera con il Bangladesh, presumibilmente da Rohingya del posto e da un gruppo addestrato all’estero nel Medio Oriente. I militari birmani, Tatmadaw, hanno risposto con operazioni brutali di controinsorgenza. Circa 1500 costruzioni nella Cittadina di Maungdaw sono stati dati alle fiamme. I gruppi dei diritti umani hanno documentato numerosi omicidi extragiudiziali, stupri e violenze da parte delle forze di sicurezza. Circa 65 mila musulmani sono scappati in Bangladesh secondo l’ONU.
Benché i media statali ufficiali abbiano ammesso che tante persone sono state ritrovate morte e che centinaia di presunti militanti e sostenitori siano stati arrestati, il governo ha essenzialmente negato gravi abusi delle forze di sicurezza. I rifiuti, talvolta spietati, goffi se non comici, sono giunti dal portavoce del presidente, dai media statali retrogradi e dalle pagine Facebook di vari rappresentanti. L’ufficio del consigliere dello stato, di Aung San Suu Kyi, ha persino esibito le parole “stupri falsi” sul proprio sito per screditare i rapporti che le truppe abbiano commesso violenza sessuale.
Senza dubbio alcuni resoconti giornalistici sono stati approssimativi e hanno fatto circolare notizie costruite e foto di presunti abusi. In alcuni giornali sono state mostrate foto di abusi commessi in Cambogia. Si è diffusa una pura disinformazione ad una velocità enorme a cura della diaspora Rohingya al di fuori della Birmania attraverso siti web Rohingya Blogger e Rohingya Vision.
Eppure la reazione dell’amministrazione di Aung San Suu Kyi è stata incredibilmente ottusa.
Un governo impegnato genuinamente nella trasparenza avrebbe ignorato questa isteria garantendo l’accesso senza restrizioni a giornalisti accreditati e investigatori dei diritti umani per verificare le accuse di abusi. Invece il governo ha rigettato e screditato moltissimi media. Le forze di sicurezza hanno impedito ai giornalisti di entrare nel Rakhine settentrionale alimentando così solo le paure sull’ostacolo all’assistenza umanitaria alle persone nelle aree del conflitto. Si formò un comitato speciale di indagine guidato dal generale Myint Swe per indagare sulla violenza di ottobre ed esso immediatamente allontanò ogni critica di comportamento errato da parte della sicurezza.
L’aura di Aung San Suu Kyi di icona mondiale dei diritti umani è rimasta comprensibilmente scossa. Allo stesso tempo le critiche contro di lei sono così forti ed eccessive che oscurano i grandi ostacoli che lei ed il suo governo incontrano e la realtà complessa della Birmania post-autoritaria.
Prima cosa, ad Aung San Suu Kyi fu affibbiata la persecuzione istituzionalizzata dei Rohingya quando giunse al potere. Le relazioni tra comunità musulmana e Rakhine, anch’essa una minoranza buddista birmana, erano tese da decenni, molto prima dello scoppio delle violenze del 2012.
Molti Rakhine non si fidano affatto dell’esercito e del governo centrale, dominati entrambi dai birmani etnici. I Rakhine credono di essere stati messi al margine e le loro risorse naturali saccheggiate. Durante i decenni di governo militare la Tarmadaw alimentò le divisioni etniche locali nel paese. Nel Rakhine intraprese misure sempre più repressive contro i Rohingya e le campagne violente nel 1978 e agli inizi degli anni 90 spinsero centinaia di migliaia di persone nel Bangladesh.
Il governo di Aung San Suu Kyi ha già preso passi importanti per affrontare queste spaccature profonde. Ha annunciato la reazione di un Comitato Centrale per l’Implementazione della pace e dello sviluppo nello stato Rakhine, come anche piani per sviluppo economico comprensivo. Si è formata una commissione di consultazione sullo stato Rakhine con la presenza di vari diplomatici birmani ed internazionali, commissari dei diritti umani e rappresentanti in pensione, e come presidente l’ex segretario dell’ONU Kofi Annan.
Aung San Suu Kyi è stata criticata per aver richiesto ai diplomatici stranieri di non usare il termine Rohingya, ma è stato poco riconosciuto il fatto che ha istruito i rappresentanti birmani a smettere di riferirsi ai Rohingya come Bengalesi, un riferimento rigettato ed impiegato in modo derogatorio. Il suo scopo era abbassare i toni del dibattito incendiario ed esagerato sull’identità dei Rohingya e rifocalizzare la discussione sul trovare soluzioni pratiche ai problemi che colpiscono la loro vita.
Aung San Suu Kyi ha subito le ramanzine per quanto commesso dalle forze di sicurezza anche se lei non ha alcun modo per controllarle. Formalmente la costituzione del 2008 assegna ai militari il controllo di tre ministeri importanti: difesa, frontiere e interni. Se avesse condannato gli abusi ed avesse insistito nelle responsabilità dei militari, avrebbe avuto pochi strumenti per far pressione sui militari: la costituzione riserva al Tatmadaw un quarto dei seggi in parlamento.
Il fatto che Aung San Suu Kyi non abbia parlato contro la cultura dell’impunità dei militari può aver ringalluzzito il loro comportamento nello stato Rakhine. Ma lei si trova in un bilancio molto delicato e deve perseguire un’agenda di riforma molto vasta, in parte con la speranza di emendare la costituzione non democratica, mentre si assicura di non mettersi contro la Tatmadaw che ha tanto da perdere da una ulteriore liberalizzazione.
La questione Rohingya è anche antipopolare: il gruppo è anche vituperato dalla maggioranza etnica buddista e birmana.
La comunità internazionale, se vuole davvero aiutare i Rohingya, deve comprendere meglio le realtà complesse della transizione continua della Birmania, bilanciando la propria fissazione con il loro dolore, una ossessione al di fuori di ogni proporzione rispetto alla scala del problema, con le sfide obbligate che il suo governo ha ereditato dopo decenni di cattiva gestione militare.
Ponendo la deplorevole repressione dei Rohingya all’interno di un contesto politico più vasto nn toglie le colpe dello stato nel prevenire e punire gli abusi, né esonera Aung San Suu Kyi per il suo chiaro sostegno tacito delle crudeli negazioni ufficiali.
Ma solo una comprensione più calibrata delle difficoltà che incontra il suo governo nel complesso, non la condanna in toto, può portare a qualche misura concreta che potrebbe alleviare le sofferenze dei Rohingya.
David Scott Mathieson, NYT