Aung San Suu Kyi nel suo discorso di 25 minuti davanti alla Corte Internazionale di Giustizia nega l’ intento genocida della sicurezza birmana contro la popolazione Rohingya
Si tenga a mente la complessa situazione e le sfide alla sovranità e alla sicurezza nel nostro paese quando valuterete l’intento di chi provava ad affrontare la ribellione. Sotto queste circostanze, l’intento genocida non può essere l’unica ipotesi.
E’ un passo del discorso di 25 minuti che Aung San Suu Kyi ha letto davanti alla Corte di Giustizia Internazionale in risposta alle accuse di genocidio e di intento genocida nei confronti dei Rohingya, dopo aver ascoltato impassibile le strazianti prove addotte dallo stato del Gambia, tratte anche dalla Commissione di accertamento dei fatti dell’ONU a cui la Birmania non ha mai dato accesso.
La complessa situazione che Aung San Suu Kyi ha descritto è quella di una regione dove ci furono attacchi coordinati e comprensivi di un’organizzazione armata Rohingya, ARSA, a posti di blocco scatenando le “operazioni di pulizia” dei militari che portò al “Esodo di varie centinaia di migliaia di musulmani delle tre province più settentrionali del Rakhine nel Bangladesh.”
Mentre si può notare che la Suu Kyi non ha mai usato il termine Rohingya, come dire che se non li chiami non li definisci e quindi non esistono, la Suu Kyi ha accusato il Gambia di aver dato un “quadro dei fatti fuorviante ed incompleto della situazione nello stato Rakhine”, ed ha aggiunto: “Supplichiamo la corte di non prendere azioni che possano aggravare l’attuale conflitto armato, la pace e la sicurezza in Myanmar”. In quest’ultimo passo la Suu Kyi sembra fare riferimento al conflitto armato in corso tra un esercito armato buddista del Rakhine, Arakan Army, e militari birmani.
Aung San Suu Kyi, che ricevette nel 1991 il premio Nobel per la Pace e che divenne un’icona della democrazia birmana per la fiera lotta contro la dittatura militare, ha anche ammesso la possibilità di un “uso sproporzionato della forza” dei militari sul campo,
“Non si può escludere che sia stato usato da membri della difesa in alcuni casi l’uso sproporzionato della forza in spregio dela legge umanitaria internazionale o che non abbiano distinto in modo chiaro abbastanza i civili dai combattenti (ARSA)”
Ha anche detto che i militari hanno fatto processi davanti a corti marziali quei militari che si sono resi rei di atti orrendi, come ad Inn Dinn, creando anche scontento quando dopo qualche anno di carcere, i militari condannati sono stati perdonati.
Sulla strage di Inn Dinn, ci fu un’inchiesta di due giornalisti birmani della Reutersw Soe Oo, a far conoscere al mondo quanto avvenuto. I due giornalisti poi furono incastrati e processati per possesso di segreti di stato in un processo che ha scioccato tutti i giornalisti birmani. I due giornalisti sono stati poi perdonati dal presidente della repubblica birmana.
“Se sono stati commessi crimini di guerra, saranno perseguiti all’interno del nostro sistema militare di giustizia” ha detto la Aung San Suu Kyi criticando gli impazienti agenti internazionali. “Non è di aiuto all’ordine legale internazionale se prende corpo l’impressione che solo i paesi ricchi possono condurre indagini nazionali e processi”.
Ed infatti davanti ad un altro tribunale dell’ONU, la Corte Penale Internazionale, pende un altro possibile processo contro i militari birmani per crimini di guerra.
La posizione di Aung San Suu Kyi di negazione del genocidio e degli intenti genocidi dei militari e del suo governo ovviamente è quella di sempre. Non ha mai voluto criticare i militari birmani che per mandato costituzionale sono presenti nel suo governo nelle tre posizioni chiave: il ministero degli interni, della difesa e della frontiera ed immigrazione. Ha sempre interrotto i rapporti con chi le faceva notare la situazione di apartheid nel Rakhine, giungendo a vietare l’ingresso anche all’inviato speciale dell’ONU in Birmania, alla commissione di accertamento dei fatti.
E’ riuscita solo a dire che i militari birmani ora devono riflettere su i misfatti compiuti da loro.
Sette premi Nobel per la Pace hanno invitato Aung San Suu Kyi a riconoscere pubblicamente che le atrocità commesse contro i Rohingya sono genocidio ed hanno chiesto che lei “risponda insieme ai comandanti dell’esercito per i crimini commessi”.
I sette premi nobel sono Shirin Ebadi del Iran, Laymeh Gbowee della Liberia, Tawakkol Karman dello Yemen, Mairead Maguire dell’Irlanda del Nord, Rigoberta Menchu Tum del Guatemala, Jody Williams degli USA e l’indiana Kailash Satyarthi. Aung San Suu Kyi ricevette nel 1991 il premio Nobel per la pace per la sua lotta nonviolenta contro la dittatura militare birmana.
Per Amnesty International Suu Kyi prova a minimizzare la gravità delle accuse fatte contro la Birmania per i crimini contro i Rohingya.
“L’idea che le autorità birmane possano ora in modo indipendente indagare e perseguire quelli sospettati di crimini secondo la legge internazionale non è che pura fantasia, specie se si tratta di generali di alto grado che da decenni godono della totale impunità” ha detto Nicholas Bequelin di Amnesty International
“Stiamo assistendo ad uno dei momenti di storia più scioccanti: la negazione ed il rigetto da parte di Suu Kyi delle inchieste credibili del genocidio dei Rohingya. Da Birmano mi vergogno profondamente e sono al contempo furioso per quello che sto per ascoltare, le menzogne e gli inganni” ha detto lo studioso birmano esule a Londra Maung Zarni che, nelle ultime settimane, è stato oggetto di tentativi di persecuzioni, insieme ad altri militanti birmani, da parte di birmani vicini all’ambasciata di Londra.
“Nell’osservare Aung San Suu Kyi andare a L’Aia per difendere i sanguinari generali birmani, la domanda aperta è perché la comunità globale abbia mai pensato che lei avesse una storia di tutto rispetto dei diritti umani” ha detto Phil Robertson di HRW che definisce la sua creazione di vincitrice del premio Nobel della pace come uno dei migliori stratagemmi di sempre nella politica internazionale.
Ma tutte queste critiche non trovano molto terreno in Birmania, dove Aung San Suu Kyi ha riacquistato popolarità per essere andata a L’Aia a difendere ciò che non può essere difeso. Come dice un giovane militante birmano Thinzar Shunlei Yi, questo processo ha permesso al partito di Aung San Suu Kyi di raccogliere sostegno di massa in un periodo in cui l’economia non va al meglio e le divisioni etniche sono forti ed attive.
“Vediamo ora che le forze politiche birmane prima divise si sono riunificate di fronte ad una causa legale di un paese straniero che così è visto come un nemico comune. La gente in Birmania non accetterà mai di scambiare la reputazione dei propri capi politici per qualunque minoranza etnica particolarmente se si parla di Rohingya”