Lo stato malese di Sabah è attualmente nel mezzo di un dibattito politico, da nervi scoperti, in cui si discute se dare o meno il certificato di nascita ai tanti bambini apolidi che vivono nello stato.
Per i favorevoli, la misura permetterà finalmente ai piccoli di accedere all’istruzione da cui sono attualmente esclusi.

Per gli oppositori, che gridano Sabah ai Suoi abitanti, è un altro trucco dei politici della penisola di permettere agli immigrati clandestini di diventare cittadini di Sabah, alterando la costituzione demografica di uno stato, dove forse metà della sua popolazione è di origine ‘straniera’ e dei loro discendenti.
Una cosa è chiara, che nessuna delle due parti considera quello che possa essere importante o significativo per tali bambini apolidi nelle loro vite. Come spesso accade quando un gruppo di bambini è al centro di un dibattito, si fa un gran servigio alle ideologie politiche se si fa il costrutto di tali bambini come gruppo omogeneo, silenzioso, che potrebbe essere “perso e vulnerabile” oppure “criminale ed illegale”.
Vorrei opporre a queste immagine stereotipate di bambini apolidi, minacciosi oppure commoventi, due bambini reali che ho incontrato durante il lavoro di campo a Kota Kinabalu, che non era di per sé dedicato agli apolidi, quanto alle esclusioni multiple (da scuola, dalla salute, cittadinanza e spazi della città) come vissute dai bambini e nipoti dei rifugiati ed emigranti filippini ed indonesiani.
Sebbene la maggioranza di tali bambini fosse nata nel Sabah, erano cionondimeno considerati ‘stranieri‘ nello stato e impossibilitati ad accedere all’istruzione pubblica, qualunque fosse stato il loro status legale. Per molti abitanti di Sabah l’esistenza stessa di questi bambini non è autorizzata, dal momento che, stando alle regole di immigrazione malese, i lavoratori stranieri non possono sposarsi ed avere famiglia in Malesia. Comunque i bambini stessi hanno una varietà di forme e di intensità di attaccamento a Sabah e ai loro genitori o nonni del paese di origine.
Cominciamo con un bambino di undici anni, Rohit e due altri fratelli. La madre è di etnia Bajau e venne a Sabah quando aveva dodici anni, dopo aver finito le elementari nelle Filippine. Da allora non ha fatto più ritorno nelle Filippine e lavora vendendo verdure al mercato alla periferia della città. Suo padre è di etnia Suluk, nato da rifugiati in una piccola cittadina di Sabah di Sandakan. Il padre di Rohit fa il fabbro e non è mai tornato nelle Filippine. Rohit, i genitori e i suoi fratelli posseggono tutti la carta IMM13, o Carta Gialla, documento di identità dato ai rifugiati e alle loro famiglie. Sebbene con questa carta possano vivere e lavorare in Sabah, è richiesto loro di rinnovarla a pagamento ogni anno, è impedito loro di uscire dallo stato e di aprire un conto in banca, di andare a scuola o ricevere sussidi sanitari o altri servizi governativi.
Rohit è un ragazzo calmo ma determinato, a cui piace giocare a calcio e badare alle galline della famiglia. Ha solo recentemente potuto accedere alla scuola attraverso un centro alternativo nella città e non è mai stato nelle Filippine. La famiglia non manda soldi nelle Filippine e Rohit non ha alcuna conoscenza o particolari interessi nel paese. Non lo considera di certo come casa sua, il paese a cui tornare. Infatti come tanti bambini che conoscevo, pensava che la guerra e i conflitti violenti nel meridione filippino lo avevano trasformato in un luogo pieno di fantasmi. Il punto di riferimento e di interesse di Rohit, compreso la rete delle relazioni familiari, sono a Sabah.
Sebbene sia orgoglioso della sua eredità mista Bajau Suluk e abbia una conoscenza di entrambe le lingue, rivendicare questa eredità è una cosa molto differente dal reclamare un’associazione con le Filippine. E’ un punto importante dal momento che molti a Sabah associano direttamente tale etnie non solo con l’essere straniero ma anche con minacce di sicurezza, se si considerano un piccolo numero di incidenti con infiltrazione armati nello stato.
Il secondo bambino che voglio presentare ha dieci anni e si chiama Thomas, figlio di immigrati cattolici da Adonara, un’isoletta dell’Indonesia orientale. Sebbene i suoi genitori siano entrambi nati in Indonesia, emigrarono a Sabah da giovani dove si incontrarono. Thomas e i suoi fratellini non hanno certificato di nascita o altri documenti di identità. Anche sua madre non possiede documenti se non un passaporto scaduto, ed era troppo impaurita dell’arresto o di pagare profumatamente per far nascere all’ospedale i suoi figli. Il padre di Thomas che lavora nell’agricoltura al limite della città non ha un passaporto valido, ma il resto della famiglia soffre della impossibilità di muoversi tipico dell’illegalità.
Come Rohit, Thomas non è mai stato nel villaggio dei suoi genitori, ma è comunque segnato dalla preoccupazione continua della sua famiglia indonesiana. Da piccolo, Thomas ha avuto una salute cagionevole. Sua nonna a Adonara che fu coinvolta in varie pratiche di cura transnazionali per assicurare la guarigione di Thomas, mise un divieto sul taglio dei capelli di Thomas finché non le avesse fatto visita nel suo villaggio di origine. Oggi Thomas ha una lunga chioma che gli scende per le spalle, un memento corporeo del legame con la famiglia in Indonesia, che deve ancora incontrare ma che continua ad influenzare la sua vita e a farlo sperare di poter eventualmente ‘ritornare’.
Nel frattempo Thomas è spesso incapace per paura di un controllo dei documenti di visitare la sua famiglia che vive nella stessa città e i suoi genitori non hanno il denaro per finanziare a breve un viaggio in Indonesia.
Le storie di Rohit e Thomas dimostrano quanto possano essere differenti le storie e le situazioni vissute dai bambini di emigrati a Kota Kinabalu e Sabah in generale. Sebbene la famiglia di Rohit viva in un continuo limbo legale e sebbene Rohit stesso, i suoi fratelli e genitori siano effettivamente degli apolidi, cionondimeno sono considerati, per certi aspetti fortunati, perché i suoi genitori hanno qualche forma di documento di identità valido. Nel frattempo, sebbene Thomas, data l’esistenza di un consolato indonesiano nella città, possa essere considerato essere meno a rischio di essere apolide, il suo status senza documenti gli rende difficile andarsene in giro.
Questi ragazzi hanno differenti legami con i luoghi di origine dei genitori. Nel caso di Rohit non ha legami né interesse per le Filippine. Nel caso di Thomas egli non ha una conoscenza sua personale dell’Indonesia, sebbene la sua famiglia rimanga coinvolta nella sua vita, impedendogli di tagliarsi i capelli, sperando che salvaguarderà la sua salute tornando al villaggio natio dei genitori.
Comunque nonostante le differenze tra in termini di etnia, di status legale e potenziale apolidicità, Rohit e Thomas hanno molto in comune. Sono nati entrambi a Sabah ed hanno conosciuto solo questo stato come patria. E’ stato loro impedito l’accesso aòle scuole pubbliche malesi. Hanno iniziato la scuola in centri alternativi di apprendimento, ad un’età relativamente maggiore. Probabilmente non avranno mai qualifiche di istruzione riconosciute in Malesia o non continueranno con l’istruzione secondaria. Ancora più significativo, probabilmente lavoreranno insieme o con loro simili nel futuro. Perché, mentre molti abitanti di Sabah non accettano che bambini apolidi abbiano il diritto, sancito nella convenzione dei diritti del fanciullo, ad un certificato di nascita, sembrano non aver problemi nel permettere a bambini non autorizzati di lavorare nelle loro fabbriche, nei cantieri, ristoranti e nelle case. Tali luoghi di lavoro diventano luoghi di appartenenza cosmopolita per giovani stranieri, che diventano amici provenienti da altri miriadi di retroterra etnici e religiosi, sebbene non siano mai amici di abitanti originali di Sabah.
I bambini di migranti che conosco a Kota Kinabalu, molti dei quali corrono il rischio di essere apolidi, non sono né persi né criminali. Possono finire in una posizione vulnerabile e secondo la prospettiva della legge di immigrazione malese, sono spesso illegali. Nel mio lavoro con questi bambini, ho spesso riso di come si facevano gioco dell’illegalità, dell’etnia, dei posti di controllo ella polizia e della corruzione. Ho anche visto la frustrazione di molti giovani che si rendevano conto che, nel loro stato perpetuo di stranieri, erano destinati a fare quei lavori destinati agli stranieri nei cantieri, nella pulizia, nelle fabbriche. I bambini come Rohit e Thomas non hanno mai conosciuto una vita a Sabah. Se avessero la possibilità, coglierebbero al volo la possibilità di andare a scuola con altri abitanti di Sabah e contribuire a quella società multiculturale.
L’attuale livello di dibattito a Sabah, in cui si descrivono questi bambini come pericolosi, elementi stranieri che non meritano il riconoscimento o persino i diritti, rendono quella possibilità molto improbabile.
Catherine Allerton, Antropologa presso London School of Economy, malaymail.com