L’incontro con Jamal, un Rohingya apolide è avvenuto nel giugno del 2012 in un ristorantino lungo una strada di Penang dopo le preghiere serali, seduti di fuori all’aperto anche per godere dell’aria fresca e parlare in tranquillità.
Conosco Jamal da qualche tempo sin dal 2007 e con lui ho interagito un po’ con la sua comunità sull’isola di Penang. Per tutti questi anni mi ha permesso con tantissima generosità e fiducia da parte sua di accedere alle vite dei Rohingya, su come funziona la loro comunità e la lotta per sopravvivere. E’ un eccellente introduttore alla sua comunità, vigile della loro sicurezza e capace di assicurare sempre un approccio secondo principi e fiducioso ai problemi e alle istanze che li colpiscono.
Nonostante una vita semplice e dura, Jamal è un capo rispettato della sua comunità ed è di frequente consultato dagli altri membri che vogliono conoscere i suoi consigli o le sue opinioni su tante istanze della comunità Rohingya a Penang ed in Malesia. Tuttavia non ostenta arroganza nonostante la stima che la sua comunità gli riserva e continua a sottolineare i principi e il canone dell’Islam come linee guida fondamentali per vivere la vita di un buon musulmano. Ha un modo di parlare tranquillo con un atteggiamento meditatamente pacifico.
Ha avuto la sua parte di sofferenze per mettere in salvo la sua vita da casa sua a Maungdaw, nello stato birmano dell’Arakan, lasciandosi dietro moglie, figli e famiglia quasi venti anni fa. I figli hanno raggiunto l’età adulta ma non ha avuto piacere di vederli crescere o non è stato coivolto nel vederli crescere fino all’età adulta e passare loro i valori a cui tiene di più.
L’ansia nei confronti delle persone amate e della sua comunità è alla base di tutti i suoi pensieri. C’è poco spazio per riderci sopra, ma riesce a sorridere all’irrazionalità di tutta la situazione o alle stranezze umane che sembrano illogiche nelle circostanze.
Come ogni società al mondo i Rohingya hanno anche la loro politica interna. Spesso Jamal prova a mantenere una posizione neutra, tentando a proprio modo di essere equo e di non giudicare gli altri, chiunque possa essere. Nel suo dialogo con me, è spesso critico della propria comunità ed in queste circostanze la sua profonda ansia riemerge per il quale nessuno di noi può trovare una soluzione.
Abbiamo discusso di molte cose e questa sera è stata la volta degli eventi a Maungdaw. Cominciò il venerdì nel villaggio di Jamal dove vivono ancora sua moglie ed i figli. La figlia più grande si è sposato ed è andato in Bangladesh con suo marito. Sua moglie era andata anche a visitare i familiari, quella volta, lasciando a casa i due altri figli.
Ho chiesto a Jamal cosa sapesse dei guai attuali a Maungdaw. E mi ha raccontato di tutto quello che poteva capire dalle telefonate ai suoi parenti che ancora vivono lì. Per quanto ne sa, era partito tutto da un attacco ad un gruppo di missionari buddisti. Apparentemente un gruppo di Rohingya aveva tenuto una protesta dopo le preghiere del venerdì fuori della moschea e erano stati sparati dalla polizia.
Due persone furono ferite e portate all’ospedale che è vicino casa sua, ma i dottori si rifiutarono di trattarli senza un rapporto della polizia. Scoppiò allora una lotta e un dottore fu picchiato. Jamal dice che per la legge 144 gli assembramenti con più di cento persone sono vietati e c’erano molte centinaia di persone a protestare.
Con la diffusione del conflitto e gli attacchi incendiari alle case, negozi ed altre costruzioni, fu imposto il coprifuoco sull’intera area di Maungdaw quella notte, ma in giro si vedeva la polizia ed una folla Rakhin aggirarsi per il paese, molti di quali con delle lame.
I figli di Jamal rimasero dentro casa, ma diceva di aver paura che qualcuno della folla potesse irrompere e far loro del male. Si sentiva impossibilitato a far qualcosa per loro. La moglie sembrava ancora via, e quando potrà ritornare è ancora incerto.
Il 9 giugno di sabato, con il coprifuoco ancora in vigore, una ragazzina Rohingya di nove anni, ignara del coprifuoco, esce di casa per alcuni metri a vendere la verdura. Secondo i racconti fu uccisa dalla sicurezza e il suo corpo fu portato via da loro stessi senza essere poi restituito per la sepoltura. Questo sarebbe accaduto nel quartiere 2 di Maungdaw. C’era polizia e forze speciali a pattugliare l’area. I capi villaggio avevano anche radunato i negozianti Rohingya i cui negozi erano stati distrutti.
Le telecomunicazioni di Myanmar erano state tagliate il venerdì ed il sabato, e Jamal ed altri rifugiati ansiosi provarono a contattare le famiglie attraverso le linee telefoniche del Bangladesh. “Ora non possiamo fare nulla” terminò il suo racconto Jamal in profonda disperazione per la futilità della situazione in cui migliaia di rifugiati Rohingya si trovano.
Non potè fare ameno di parlare dell’oppressione da cui era fuggito venti anni prima. Ai Rohingya si attribuisce il termine Kalar da parte degli altri abitanti Rakhine, che significa come un insulto Pariah.
“Abbiamo avuto paura di loro sin da quando eravamo piccoli. Per instillare disciplina i genitori minacciavano di chiamare i Rakhine e noi obbedivamo per paura. E’ facile che la nostra gente abbia paura e si aggirano molto umilmente.”
A parte quello che dice Jamal sa che ci sono Rohingya che hanno preso misure più dure e sono inclini a reagire in autodifesa o per vendetta aggressiva.
Eppure, riflettendoci sopra mi dice che ci sono stati tempi quando tra i Rohingya e i Rakhine c’era stata amicizia e si usciva insieme e si andava a mangiare insieme, parlando e camminando fino a tarda notte. E’ triste vedere che questi tempi sono scomparsi e che sono montate le barriere di odio e rabbia tra loro.
Questa è l’ultima conversazione che ho avuto con Jamal mentre non non è stato in contatto negli ultimi mesi. Posso solo sperare e pregare che si accetti la popolazione Rohingya come cittadini riconosciuti della Birmania e che la pace e il perdono giungeranno subito tra i vari gruppi etnici nello stato natio di Jamal dell’Arakan in Birmania.
Dialongo con un Rohingya, Angeline Loh, Aliran.com
BIRMANIA: I Rohingya apolidi in cerca di asilo
Negli ultimi anni ci sono stati moltissimi sbarchi clandestini di Rohinga sulle coste thailandesi e Malesi ricevendo in realtà una accoglienza nelle carceri per essere poi rispediti prontamente in Birmania.
Gli ultimi sbarchi di gennaio e febbraio hanno creato una situazione molto tesa in quanto la Thailandia si rifiuta di far entrare il Commissariato ONU sui Rifugiati nelle carceri per intervistare i Rohingya e verificare se 211 detenuti Rohinga possono usufruire dello status di rifugiato. Questa è la denuncia di Human Rights Watch.
I Rohingya sono una delle tante minoranze etniche di cui è composta la Birmania e si concentrano in una regione isolata della Birmania occidentale al confine col Bangladesh, nella parte settentrionale della provincia birmana di Rakhine (Arakan). Sono per lo più di religione musulmana e si stima che la loro popolazione ammonti a circa tre milioni di persone.
Hanno una cultura ed una lingua distinta e parlano un dialetto bengali, simile a quello parlato a Chittagong, in Bangladesh. Il dialetto ha assorbito molte parole dall’Urdu, dall’indiano e dalle lingue arabe. La religione è molto importante per questa etnia e nelle loro zone sono molto presenti sia moschee che scuole musulmane, distribuite in tutti i quartieri. Tradizionalmente gli uomini pregano nella moschea mentre le donne, che indossano l’hijab pregano a casa.
Geneticamente legati ai bengalesi, indiani, arabi e mori, convivono con una maggioranza del gruppo etnico di Rakhine, o Arakan, si definiscono anche arakanesi musulmani. I primi insediamenti musulmani nella zona compaiono nel VII secolo.
Con l’indipendenza birmana nel 1948 un milione e mezzo di Rohinga hanno lasciato la Birmania verso il Bangladesh, Pakistan e Arabia Saudita con piccole comunità in Thailandia e Malesia. Gli ultimi esodi massicci avvengono nel 1972 e 1991 verso il Bangladesh. Nel 2003 si stimava che vivevano in Bangladesh almeno 100 mila refugiati illegali, oltre i 22 mila che vivevano nei campi dell’UNCHR la maggioranza dei quali avevano meno di 18 anni.
Con un programma di rimpatrio dell’UNCHR furono rimpatriati in Birmania 235 mila Rohinga dal 1994 in poi.
La posizione di Human Rights Watch:
Dopo un pericoloso viaggio in mare su barche malmesse e sovraccariche, è giunto in Thailandia dalla Birmania un gruppo di 158 Rohinga tra il 22 e 23 gennaio 2011, raggiungendo così nelle carceri thailandesi riservate agli immigrati clandestini altri 53, detenuti dal 2009. Le autorità Thailandesi hanno ripetutamente rifiutato di permettere l’accesso ai detenuti da parte dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
«La persecuzione a cui sono soggetti i Rohingya in Birmania è atroce, ma il governo Thailandese continua a fare finta che non sono poi molto differenti da qualunque altro emigrante senza documenti.» sostiene Brad Adams, direttore in Asia del HRW. «La Thailandia deve cambiare corso e permettere all’UNHCR di intervistare tutti i Rohinga detenuti per identificare chi di loro cerca lo status di rifugiato.»
La risposta Thailandese contrasta fortemente con quella malese che ha permesso all”UNHCR di visitare e stabilire i casi di 93 Rohinga detenuti le cui barche furono intercettate nel marzo 2010. Dopo che UNCHR accertò il loro stato di rifugiati furono tutti rilasciati dal centro di detenzione.
«Come nuovo membro del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, la Thailandia deve essere la capofila negli sforzi nella regione per la protezione dei rifugiati piuttosto che rinchiuderli in carcere. Se la Malesia può soddisfare gli standard di protezione internazionale dei rifugiati, perché non lo può fare la Thailandia?»
Le autorità Birmane hanno perseguitato in modo sistematico i Rohingya una minoranza musulmana che vive essenzialmente nello stato occidentale dell’Arakan da più di 30 anni, ma i governi delle nazioni donatrici e dell’ASEAN hanno detto molto poco e fatto anche meno per porre fine a questi abusi, secondo HRW: omicidi extra giudiziali, lavoro forzato, persecuzione religiosa, restrizione dei movimenti, il tutto ancor più esacerbato da una legislazione che rende i Rohingya degli apolidi.
Il trattamento violento e discriminatorio del governo birmano verso i Rohingya, che contribuisce alla loro cronica povertà, ha spinto 300 mila di loro a scappare nel vicino Bangladesh dove vivono in condizione primitive e squallide in campi di fortuna ed ufficiali.
Poiché il Bangladesh si rifiuta ai Rohingya non registrati un permesso di lavoro o permesso di residenza, vivono in condizioni di paura di arresto o di detenzione di lungo periodo e possibile rimpatrio in Birmania. Ogni anno tantissimi Rohingya pagano mediatori per poter scappare dalla Birmania e dal Bangladesh.
Il rifiuto thailandese di far intervistare i rifugiati Rohingya impedisce anche uno screening efficace degli effettivi Rohingya, in quanto in passato molte barche portavano insieme Rohingya e gente del Bangladesh che si fingeva Rohingya.
«Il governo thailandese dovrebbe cercare di trarre vantaggio dell’esperienza dell UNCHR che ha ripetutamente detto alle autorità di essere pronti ad aiutarli a verificare le identità dei Rohingya che cercano asilo. In questo modo, la Thailandia si porrebbe in una posizione forte con i partner internazionali per trovare una soluzione sostenibile di lungo termine per i Rohingya, soluzione che inizia con l’assicurare loro i diritti in Birmania.»