Khin Mar Saw è una donna musulmana ed ha raggiunto la costa delle Birmania occidentale vicino alla capitale dello stato dell’Arakan lo scorso mese, dopo un viaggio faticoso di due giorni in una barca per fuggire dalla cittadina di pescatori di Kyaukpyu, la sera del 23 ottobre, quando la violenza tra musulmani e buddisti avvolgeva l’intera zona.

Ora la donna è una delle 40 mila persone, per lo più musulmane, dislocate dagli scontri e vice nella casa di sua cugina in un villaggio nell’area musulmana della città, dove decine di migliaia di persone rifugiate interne hanno un rifugio insieme alla popolazione del luogo.
Suo marito non ha avuto la stessa fortuna. Ha lasciato Kyuakpyu il giorno seguente e dopo che la barca ha raggiunto la riva vicino Sittwe, non gli è stato permesso di approdare con tutto il gruppo dalle autorità. C’erano altre persone disperse sulla spiaggia sotto un forte controllo poliziesco. Secondo fonti varie, almeno 800 persone si trovano ancora lì, con pochi rifugi di fortuna e con poca acqua e cibo.
La famiglia di Khin Mar Saw è musulmana Kamans, uno dei 135 gruppi etnici che, al contrario dei Rohingya, sono riconosciuti ufficialmente come veri birmani dalle autorità. Come tali, la donna ha la cittadinanza lavorando persino per lo stato da venti anni. I Kaman sono stati risparmiati nei primi scoppi di violenza a giugno, quando al centro erano soltanto i Rohingya, ma non sono riusciti a farla franca nella ripresa delle violenze ad ottobre a Kyaukpyu, dove rappresentano una vasta parte della comunità musulmana.
Racconta la sua storia con una voce tremante senza riuscire a tenere le lacrime nel ricordare la morte di suo figlio Ibrahim. Il ragazzo fu ucciso mentre cercava di fermare l’incendio in una moschea di Pikesake orientale, un quartiere a maggioranza musulmana raso al suolo durante gli scontri. Quella sera del 23 ottobre correva alle barche con altri bambini quando le fu raccontato che il figlio era stato ucciso dalla polizia.
Ahmed, un giovane pescatore Rohingya proveniente dal quartiere Pikesake Orientale, che sé è rifugiato nel villaggio di Baw Dhu Pa, vicino a Sittwe, era uno degli uomini che provava a spegnere quell’incendio. Dice di aver visto suo cugino Mohammed cadere a terra esauste per un colpo al collo mentre gettava acqua sulle fiamme dal tetto della moschea. Altri tre uomini furono uccisi e portati immediatamente in un’altra costruzione della moschea aggiungendo che gli spari venivano dalla posizione dove era stata disposta la polizia e nessun altro aveva delle armi.
Secondo questi ed altri testimoni nei campi e villaggi musulmani, la folla arakanese li attaccò a Lyaukpyu ed in altri luoghi dopo tanti giorni di minacce, fatte da persone che non sembravano del luogo. Circolavano voci che parlavano di folle Arakanesi radicali che si aggiravano per lo stato initando alla violenza contro i musulmani. In un hotel di Kyaupyu ai gironalisti di Irrawaddy fu mostrato un video di un giovane lavoratore di una ONG che contenevano immagini di buddisti che si esercitavano con i bastoni. “Ci dobbiamo proteggere” diceva un altro membro della ONG “ma questo è solo una finzione, non è addestramento vero”. Gli arakanesi intervistati sempre nello stesso villaggio raccontano un’altra storia rispetto a quella dei musulmani. Tutti loro dicono che gli aggressori erano i musulmani e che loro si stavano difendendo.
Aye Mya Thanda, una ragazza di 24 anni che insegna in un monastero vicino e che vive al confine dell’area distrutta, dice che tre giovani musulmani che conosceva da anni invasero casa sua e la incendiarono poco prima che cominciavano le violenze. La casa è quasi distrutta e lei vive con i genitori, un poliziotto in pensione birmano e la moglie arakanese, in una capanna senza un tetto vero dentro il terreno della famiglia.
Un altro vicino, un tassista di 36 anni Soe Naing diceva di aver visto uno degli amici colpiti da un pezzo di ferro lanciato da una catapulta dal lato musulmano. Quando fu chiesto loro come mai ad essere distrutte fossero le sole case dei musulmani se a lanciare l’attacco erano stati loro, mentre le case degli arakanesi restavano essenzialmente intatte, disse che i musulmani avevano distrutto le proprie case prima di scappare con le barche.
Senza voler soffermarsi su chi ha istigato la violenza, resta il fatto che Kyaukpyu è ora una città ripulita etnicamente con la sua popolazione musulmana virtualmente eliminata. Soe Naing e altri testimoni arakanesi a Kyaukpyu negano che le forze di sicurezza abbiano sparato contro i musulmani o che avessero parteggiato per i buddisti, ma ammettono che un’ora dopo le gli scontri erano iniziati, hanno visto dieci soldati emergere dai quartieri musulmani e dire loro di tornare alle loro case.
Secondo Matthew Smith di Human Rights Watch che ha girato per i luoghi della violenza “C’è la prova che suggerisce che le forze di sicurezza erano coinvolte negli omicidi e in altri abusi nell’ultimo scoppio di violenze, ed è un fatto particolarmente grave a cinque mesi dallo scoppio delle violenze.”
Indipendentemente dal ruolo che l’esercito e la polizia ha giocato durante le violenze di ottobre, è chiaro che le autorità danno un trattamento diverso ai dislocati dei due lati. Non solo ci sono molti meno arakanesi scappati, ma essi godono di una libertà di movimento oltre che di servizi e luoghi che i Rohingya possono solo sognare. Ci sono due dottori militari e due infermiere per trattare 150 rifugiati buddisti nel monastero di Than Pyu, mentre il trattamento medico negli spaventosi campi Rohingya sono totalmente inadeguati. Al campo di Baw Dhu Pa gli sfollati dicono che il governo invia loro un dottore una volta la settimana, ed il solo medicinale per tutte le malattie è il paracetamolo. A Tat Kal Pyin c’è una clinica improvvisata messa su da sette volontari di Rangoon che visitano senza sosta centinaia di pazienti al giorno.
La mancanza di cibo e di vestiti non è un grande problema nei campi degli arakanesi che per la libertà che godono hanno la possibilità di continuare le loro attività economiche e possono così inviare delle donazioni ai rifugiati. Quindi una ONG locale Wan Lark Foundation ha inviato decini di pacchi con abiti ai dislocati di Kyaukpyu.
Dall’altro versante, malnutrizione e malattie come la tubercolosi e la diarrea sono fiorenti nei campi musulmani. La scuola musulmana di Tat Kal Pyin è diventata un rifugio di 1400 persone. Chi vi risiede lamenta che loro fanno affidamento per lo più sulle donazioni di residenti poveri del posto e talvolta stanno anche vari giorni senza mangiare e tanti uomini e bambini mostrano i segni della malnutrizione.
I problemi di questi campi sono esacerbati dall’ostilità che le agenzie internazionali trovano nella comunità arakanese. Un lavoratore dell’aiuto in modo anonimo ha detto: “Dopo nove anni di lavoro in vari paesi nelle circostanze più difficili, non ho mai sentito un odio così da parte di una comunità.”
Il fondatore della Wan-Lark Foundation, Thein Tun Aye, crede che le agenzie di aiuto internazionale soono a favore dei “Musulmani bengalesi”, i Rohingya come vengono denominati dagli arakanesi. Diceva che le agenzie dovrebbero abbandonare il nome Rohingya per usare il termine kalar, una parola che a suo avviso non ha connotazioni negative, ma è largamente considerato un insulto da parte di chiunque ha la pelle scura. Lui dice che la sua fondazione sarebbe pronta a sostenere le ONG internazionali, ma esse devono essere trasparenti e, per spiegarsi, afferma che un Rohingya che lavora per Medici senza Frontiere ha legami con i gruppi estremisti. L’uomo in questione è Kyaw Hla Aung, un avvocato di lungo corso per i diritti dei Rohingya che era stato arrestato a giungo dalle autorità birmane, ma assolto e rilasciato ad agosto. Ora è uno degli sfollati in un campo musulmano a Sittwe. Una folla a giugno distrusse la sua casa e dopo fu detenuto per qualche tempo quando la polizia affermò di aver trovato in casa sua documenti legati ad Al Qaeda. L’avvocato si difende con forza dicendo che il materiale era stato messo negando ogni legame con estremisti dell’estero.
La violenza di questi mesi ha approfondito la sfiducia reciproca ad un punto tale che una coesistenza pacifica sembra impossibile. Aye Mya Thanda, la giovane docente del monastero, ripete un mantra tipico ascoltato nella sua comunità quando dice che non si può più vivere con i musulmani, compresi i Kamans, e che devono essere inviati lontano dallo stato dell’Arakan.
Questo sentimento trova rispondenza nel desiderio di tanti musulmani di lasciare il paese. Khin Mar Saw, la donna Kamar che ha perso il figlio mentre provava a spegnere l’incendio della moschea a Piksake orientale, dice che i musulmani non possono più vivere in Birmania chiedendo al giornale Irrawaddy se c’era una possibilità di chiedere asilo in Europa.
Comunque ci sono alcuni arakanesi che credono in un possibile ritorno alla coesistenza, ma hanno paura di esprimersi apertamente. Allo stesso tempo Mahmood, un anziano Rohingya rifugiato, ha confessato che è in contatto regolare con un anziano arakanese e suo amico di lungo tempo del suo villaggio che segretamente gli telefona e che lo aspetta quando sarà il momento per tornare.
Entrambe le comunità si vedono come vittime dell’altro e del governo birmano. Lo storico locale Aung Kyaw Zan lamentava che gli Arakanesi sono stati storicamente “costretti a scegliere tra diventare Birmani o musulmani” e che sono costretti a lottare per la loro identità di fronte a questi “due imperi potenti”, sostenendo le affermazioni anti Rohingya con esempi tratti dalla storia, citando un’insorgenza che cercava uno stato musulmano indipendente che scomparve 50 anni fa. Questo storico locale accusava i media internazionali di prestare più attenzione al destino dei Rohingya, una parola che gli Arakanesi non accettano. “Dopo il golpe del 1988 i media esteri accettarono il termine Rohingya poiché non amavano il regime militare, ma non conoscono la nostra storia.”
Un membro di un’associazione locale lamentava “I Rohingya sono apolidi, ma noi non abbiamo voce” riferendosi alla mancanza di spazio percepita per le loro lamentele nei media internazionali. Le ragioni delle violenze recenti sono del governo che “usa i Rohingya come propri cani” per distogliere l’attenzione dalle richieste arakanesi, specialmente ora che alcuni attivisti si oppongono ai mega progetti per la regione, specie nelle zone colpite dalle violenze recenti.
In ogni caso questa sfiducia totale tra le due comunità è forse nuova solo per l’intensità. L’anziano padre del monastero Than Pyu, U Baddiya, dice che non c’è stata mai comunicazione con i capi religiosi musulmani che non avevano mai provato a contattarlo, riconoscendo però che neanche lui ha mai provato a contattare loro. Con fierezza dice che il suo monastero ha una tradizione di accoglienza dei rifugiati e che al tempo del tifone Gii nel 2010 ospitò 800 sfollati. Quando gli si chiede se prenderebbe in considerazione l’idea di ospitare dei musulmani, risponde che ha dato loro da mangiare nel passato ma non li avrebbe accettati nel monastero. Ha aggiunto che questa situazione sarebbe impossibile comunque poiché l’Islam vieta ad un musulmano di recarsi in un tempio o monastero buddista. Ma vari musulmani dell’Arakan hanno negato che esista un tale divieto nell’Islam da loro praticato.
Tra le due comunità esiste una profonda ignoranza rispetto all’altro che la politica di segregazione totale applicata dalle autorità non fa nulla per rimediare. Sia i musulmani che i buddisti hanno detto all’Irrawaddy che sono vissuti in pace e in modo amichevole prima dello scoppio delle violenze a Giugno.
Ma ora non c’è rapporto quotidiano tra queste due comunità estranee, e tutti e due sono percorse da dicerie che dipingono l’altra comunità come dei mostri assetati di sangue. Sembra che ogni giorno in più di segregazione renderà sempre più difficile per buddisti e musulmani il ritorno alla convivenza.
Carlos Sardina Galache Irrawaddy.com