Non è stata la mia più bella impressione della mia vita. Nell’arrivare al piccolo e polveroso villaggio di o’Key, dove i cani se ne vanno in giro tra le poche case in bambù, sorrido e saluto una madre e figlia sedute all’ombra di un banano. La giovane mi fissa. Poi con tremore della bocca scoppia a piangere. “Non te la prendere sul piano personale” mi dice la mia guida Lok con tono rassicurante. “Non ha poi visto molti occidentali.”
Benché il grandioso tempio di Angkor abbia messo la Cambogia sulle mappe del turismo, sono ancora pochi i turisti che si avventurano in questa parte misteriosa e remota regione sudoccidentale. La regione del Cardamomo era fino a poco tempo fa irraggiungibile. Fino a metà degli anni 90 imperversava la guerra in questi picchi di smeraldo che ha preso il nome della spezia che qui cresce. La zona era la roccaforte dei Khmer Rossi dopo che il loro regime crollò nel 1979 e per più di un decennio continuarono le battaglie sanguinose tra la guerriglia e i villaggi locali.
Quando cessarono i fragori delle armi, la gente del posto si ritrovò senza nulla. Costretti a sfruttare per la propria sopravvivenza le loro risorse naturali, si diedero alla caccia e distrussero le foreste. Ma nonostante il loro passato oscuro e la loro storia degna di una rivisitazione hollywoodiana, Il Cardamomo rimane uno dei posti di bellezza assoluta che con la pace comincia a vedere il turismo.
Sono circa un migliaio all’anno i visitatori che vi fanno una visita, dopo tre ore in auto e due ore di un viaggio in barca favoloso dalla Capitale Phnom Penh, ma è uno sforzo che è ben ripagato con hiking di alta classe e una interazione con la popolazione locale che è tutt’altra cosa dai trek commerciali che si trovano in Asia.
Con l’aiuto di una organizzazione americana noprofit che lavora con i governi in tutto il mondo per promuovere la conservazione e combattere la povertà nel sudest asiatico, le comunità del posto hanno reclamato il proprio destino. I terreni minati sono stati puliti ed i campi di battaglia sono diventati territori di trekking, dove gli uomini che un tempo combatterono i ribelli ora fanno le guide turistiche lungo i percorsi deserti. Le donne nel frattempo hanno aperto le proprie case per trasformarle in alloggi permettendo così a tutta la comunità di beneficiare di un profitto.
Una di queste donne è Ming Tha che mi accompagna nella seconda stanza della casa umile costruita su pali nel villaggio principale di queste montagne, Chi Phat dove comincia la mia avventura di trekking.
Nel sistemarmi nella stanza, intravedo Ming tra i legni del pavimento mentre seduta raccoglie le foglie di coriandolo mentre per il cortile si aggirano cani e anatre, galline e bambini. Le cicale cantano mentre nuvole di pioggia si fanno avanti, e le gocce cadono pesanti come proiettili sul tetto di lamiera.
La mattina dopo faccio una camminata per la larga strada principale di Chi Phat, dove la benzina e il potente vino di riso si vendono in bottiglie di plastica identiche. La mia guida da Phnom Penh, Lok, mi presenta nel centro della comunità, che fa anche da solo ristorante del paese, a Kan che sarà il conduttore della nostra camminata. Abbiamo pianificato di camminare per 22 chilometri nei prossimi due giorni, sebbene in mezzo a tante varietà di percorsi di varie lunghezze e difficoltà, la scelta di una rotta è sempre una cosa difficile. Per le montagne sono stati ricavati, con ottima attenzione, un centinaio di chilometri lungo i quali sono state erette baracche di fortuna nelle radure per accamparsi con un minimo di conforto.
La prospettiva di un trekking qui era eccitante e, come dice Lok, guardando verso le montagne coperte a foresta che si alzano fino a mille metri: “E’ di livello mondiale”. Vi abitano 70 specie di mammiferi, compreso l’orso malese, i leopardi maculati e la specie in pericolo di estinzione dei delfini Irrawaddy, mettendo insieme nelle Montagne del Cardamomo, sedici ecosistemi differenti.
Fanno parte inoltre dell’ultimo corridoio al mondo per gli elefanti, una via che mandrie di creature dalle lunghe zanne percorrono per vari mesi verso la città costiera di Sihanoukville. Negli anni recenti, il numero di animali è caduto a causa della caccia illegale selvaggia e si pensa che ne rimangano un centinaio nell’area.
Insieme al nostro cuoco, un uomo di poche parole il cui nome resterà sconosciuto e che chiameremo Signor Granchio, ci incamminiamo facendo una scoperta eccitante nei primi minuti. Per tutto lo stretto passaggio ci sono delle buche profonde della grandezza di un piatto sulla terra umida della foresta, segni del passaggio di elefanti. Kan invece sembra più interessato ad un albero nelle vicinanze. Colpendo la copertura rosso sangue con i colpi del suo macete che echeggiano nella foresta, strappa via un pezzo e subito la fa scorrere sulle sue gambe nude e sulle caviglie. “Serve per la protezione dalle sanguisughe” dice mentre si sente il forte grido di un gibbone. Ne afferro un po’ e seguo l’esempio come vedo apparire dal nulla le sanguisughe sul terreno umido della foresta.
Viaggiamo per ore attraverso l’inesprimibile bellezza di una natura pristina: felci gigantesche che crescono al fianco di piante esotiche e delicate, piccoli jecko sgusciano via tra i tronchi di alberi caduti. Ma un’altra cosa superava in bellezza, non c’era alcuna anima da vedere.
La sera ci accampiamo nel cuore della foresta. C’è ben poco da fare se non legare le nostre amache ai bambù di una speciale struttura eretta in una piccola radura. Il signor Granchio si mette subito ad armeggiare per una cena. Al calare della sera, piegato a cucinare sul fuoco in un wok, frigge pezzi di carne aromatizzata. Improvvisamente ogni latrato di animale, ogni fruscio di albero, diventa sempre più misterioso e sinistro.
Ma non ho tempo per lasciarmi andare e comunque mi interessa sapere della storia locale da chi c’è passato. Kan e Lok, come molti, portano ancora le ferite della storia recente. Kan ora quarantenne è nato a Chi Phat ed ha cominciato a lottare contro i Khmer Rossi quando ne aveva quindici, mentre Lok, più giovane di lui, ha perso i suoi cari col regime, come un infinito numero di cambogiani. “non cerco la vendetta per chi ha ucciso la gente del mio villaggio quando ero bambino. Mio padre era tra i morti e mia madre temeva che saremmo stati separati, e fuggimmo. Ho perso mio padre ed una casa.”
Il giorno dopo mi sveglio al crepitare della legna da ardere. Granchio serve la colazione con il caffè che bolle nella sua caffettiera ben usata di stagno. Il giorno dopo ha qualche fattore in più di meraviglia: lo scenario epico e i villaggi poveri che nascondono segreti antichi. Attraversiamo vaste pianure di erba pallida che scricchiola sotto il passo. Tutto intorno a noi si erigono gentilmente le maestose colline del Cardamomo. Da qualche parte ci sta il picco più alto della Cambogia, Phnom Aural.
Seguo la strada lungo un torrente zampillante e guardo verso l’acqua torbida alla ricerca del raro coccodrillo siamese che un tempo si trovava in abbondanza da queste parti ormai visto sempre più di rado.
E’ difficile sottostimare il significato culturale e naturale di queste montagne per i cambogiani. E’ stata da secoli casa a gruppi di persone e tanti costumi sono andati perduti, ma non dimenticati. Benché non li pratichino più da tempo, la gente del posto continua a rispettare gli antichi rituali dei loro progenitori.
Nel XIII secolo, all’apice dell’impero Khmer, i morti non erano seppelliti. Li attendeva un diverso cerimoniale. Le ossa e gli altri resti erano posti in giare di ceramica e lasciati in posti spirituali segreti, alcuni dei quali sono stati scoperti di recente.
Kan e Lok vogliono che io li veda da me, così dopo aver visitato la gente de villaggio di O’Key, e portando qualcuno alle lacrime, ci avventuriamo nel profondo della foresta, ad una caverna alla base di un dirupo. Appoggiati su una montagnola di sabbia e polvere c’è una collezione di vasi e giare antiche e colpite dal tempo. Come li osserviamo, diventiamo sobri e allo stesso tempo provo uno strano senso di eccitazione. Non posso negare la mia fortuna di trovarmi in un posto così segreto e sacro.
Fino a qualche tempo fa, nei villaggi come O’Key non si parlava di altro che dei piani del governo cambogiano di minare la montagna alla ricerca di oro e titanio. Se la proposta fosse andata avanti, si sarebbe invocata la catastrofe, con la distruzione del corridoio degli elefanti e secoli di patrimonio. Le campagne dell’opposizione, guidate da ONG interazionali e dagli ambientalisti, si sono opposti con forza e i progetti sono stati messi da parte lo scorso anno.
Torniamo a Chi Phat stanchi ed esilaranti, ma Lok ha ancora un posto da mostrare. Salto sul sedile posteriore di una moto e percorriamo un lungo tratto mal messo ffuori del villaggio. Attraversiamo il fiume, camminando con cautela sulle rocce scivolose vicino a delle rapide, ci fermiamo primo di un gruppo di alberi. “Questa è la nostra riserva di alberi” dice Lok tutto felice. Ed ha ragione ad esserlo. Andando contro la tendenza diffusa alla deforestazione dei giorni andati, la sua associazione ha ripiantato quasi due milioni di alberi qui, ebano, mogano e albero di sandalo.
Sulle loro cime si aggira della nebbiolina. Il suono smorzato dei campanacci risuona dalla distante pianura. Il passato forse è stato scuro, ma il futuro è chiaro.
Nick Boulos, Wahsington Post,