Fu un solo giorno a Phnom Penh nel 1988, uno dei tanti, ma anche ora non riesco a togliermelo dalla testa. Il genocidio era finito, ed il Vietnam, tradizionale nemico del paese, aveva posto termine cacciando il regime dei Khmer Rossi ed installando un governo collaborazionista.
Ma Phnom Penh nel 1988 ancora piangeva i propri morti.
Erano morte così tante persone ed erano migliaia i rifugiati, tra quelli che avevano patito sofferto per il loro regime e chi era stato loro fedele, che vivevano ai campi di confine divisi per appartenenza politica in Thailandia in attesa di un accordo diplomatico che non sembrava mai arrivare.
“Tutti i cambogiani intelligenti o sono scappati dai Khmer Rossi o sono stati uccisi” mi disse una volta l’amico cambogiano Phin Chanda, con leggerezza come se stesse scherzando. “Noi siamo i reduci”.
Ero il capo per l’ufficio del Sud Est Asiatico in quel tempo e provavo a raggiungere il Vietnam e la Cambogia ogni volta che potevo dal mio ufficio a Bangkok. Quell’inverno di oltre venti anni fa era uno caldo e lungo, perché non si poteva entrare in Cambogia se non attraverso il Vietnam.
Avere un visto per il Vietnam era già difficile e poi si doveva procurarsi il permesso per entrare in Cambogia che era ancora un posto pieno di fantasmi. C’erano pochi residenti dei paesi capitalisti se non qualche australiano che lavorava negli aiuti.
Non c’era un servizio aereo e quindi dovetti affittare un tassì da Ho CHi Minh City, la vecchi Saigon, che mi portasse a Phnom Penh per un panorama di risaie e palme e villaggi scheletrici all’impressionante espansione del Mekong, dove si unisce con i fiumi Bassac e Tonle Sap.
I vietnamiti cercavano di giustificare la loro occupazione del paese rievocando gli orrori dei Khmer rossi. Avevano creato un museo a Tuol Sleng, la scuola superiore di Phnom Penh dove i Khmer Rossi avevano condotto gli interrogatori e ucciso così tante persone, prendendo per prima cosa il loro ritratto da brivido da appendere ai muri. In una classe rimasi a fissare il letto di metallo, ora divenuto famoso, con gli elettrodi attaccati dove si torturavano le vittime. Il museo rimane lì, nominato il Museo del genocidio di Tuol Sleng.
I Vietnamiti costruivano anche un ossario, un monumento alla memoria ai morti. LA Cambogia era piena di ossa e di fosse poco profonde. Ricordo i serbatoi vuoti di benzina di una stazione locale devastata che era stata usata per ammassare i corpi dei morti e le ossa delle dita disperse nell’erba.
Vicino al sito di costruzione del nuovo memoriale, a Choeung Ek, a meridione della città, c’erano mucchi di ossa, ed un magro lavoratore cambogiano colla sua sciarpa tradizionale di cotone, il Kramar, attorno al petto, seduto ad un tavolo sotto un tetto di paglia. Fumava la sigaretta con una mano mentre si poggiava con l’altra su un masso di teschi.
Andai poi al Mercato Centrale, una struttura massiccia e bella di stile Art Deco lasciato dai francesi.La gente si arrangiava, la verdura era fresca e costava poco, c’era un po’ di carne di bufalo costosa appesa a strisce coperta di mosche. C’erano piccoli negozietti per farsi un caffè al latte cambogiano, con un latte condensato nauseante, come piaceva a mio nonno. Ed una piccola clinica di massaggi dove giovani donne e uomini praticavano la vecchia magia medica della coppetazione.
Una giovane, attentamente guardata da una più anziana, forse la madre, riscaldava piccoli bicchieri e li applicava sulla mia spalla. La pelle era risucchiata nel bicchiere man mano che si raffreddava. Dovevo avere l’aspetto di un qualche insetto, un artropode con occhiali graduati. Faceva male, ma il dolore mi aiutò, in un certo senso, a soffrire un po’.
Finalmente il giorno si raffreddò con un meraviglioso tramonto ed una cena di un piccolo ristorante sul lago Boeng Kak nella città. Cenai con dei granchi ed un pesce al curry, cotto col vapore in una foglia di banana. Ricordo molto meglio la breve corsa nel risciò verso il mio hotel diroccato al Centro di Phnom Penh, mentre guardavo verso l’alto agli appartamenti appena illuminati dall’elettricità rubata e deboli lampadine, pensando a come i Khmer Rossi avevano svuotato la città interamente e ucciso così tanti dei suoi abitanti, e come la gente che viveva qui ora, quantunque miseramente, avesse vinto una straordinaria vittoria sull’ideologia e il male.
So che ora la città si è fin troppo agghindata con i soldi thailandesi, cinesi e di Singapore. Ma voglio vederla ancora e sentire quel senso tranquillo di sollievo che la follia ha una fine.