Dal conflitto al negoziato, nella Thailandia meridionale, secondo MCCARGO

Sono passati dieci anni dallo scoppio di una delle insorgenze più gravi in Asia, il conflitto tra i musulmani Malay e lo stato thailandese nella Thailandia Meridionale che, spesso ignorato e non adeguatamente seguito dalla comunità internazionale, ha lasciato oltre 6000 morti e innumerevoli feriti.
Qui c’è qualcosa che va oltre l’instabilità del meridione.

juwae pattani thailandia meridionale

Recentemente la Thailandia ha rivisto un risorgere delle tensioni regionali per il paese, come nel nord e nordest. Gestire la questione spinosa dell’insorgenza meridionale, affrontandone le cause radicali sarà fondamentale nel rispondere all’ondata di risentimenti regionali e permetterà a tutti i Thailandesi più spazio politico per gestire gli affari interni senza la costante interferenza di Bangkok. Il profondo meridione non deve diventare un modello per una guerra civile più vasta a livello nazionale.
Gli sporadici tentativi di sistemare la questione del conflitto meridionale in modo pacifico sono falliti. Il più recente di questi sforzi è stato un processo di dialogo sponsorizzato dallo stato malese iniziato nel febbraio 2013. La causa del fallimento è che nessuno delle due parti, sia lo stato thailandese che l’insorgenza, ha affrontato la questione con serietà sufficiente. Eppure l’iniziativa malese segna un progresso importante rispetto ai precedenti, i colloqui a porte chiuse. Qualunque governo thai dovrebbe persistere con i colloqui di Kuala Lumpur. Nonostante tutte le loro incongruenze, offrono la migliore prospettiva di raggiungere un accordo politico Entrambe le parti devono mostrare comunque maggiore dedizione per questo accordo introducendo anche nuove strutture e procedure che portino ad un negoziato serio.

INTRODUZIONE

patani

La Thailandia meridionale è il luogo di una delle insorgenze più serie con oltre 6000 persone uccise nella regione contesa dal 2004 (1). Il conflitto è, essenzialmente, tra elementi della comunità Malay musulmana delle province meridionali del paese e lo stato thailandese. I tentativi dei tanti governi di Bangkok di affrontare il conflitto con una miscela di misure repressive e progetti di sviluppo economico mal concepiti hanno comportato scarsi risultati. E’ un problema essenzialmente politico che grida ad una soluzione politica, qualcosa che le autorità del paese sono state finora riluttanti ad ammettere.
C’è qualcosa di più delle tante vite perse e distrutte nel meridione thailandese. Di recente il paese ha visto la rinascita di tensioni etniche e regionali essenzialmente nel nord e nordest. Affrontare le cause radicali dell’insorgenza meridionale sarà fondamentale nell’invertire l’ondata del risentimento regionale. Permetterebbe potenzialmente ai thailandesi maggiore spazio politico per gestire i propri affari politici senza la costante interferenza di Bangkok. E’ fondamentale che questo conflitto non diventi un modello per una guerra civile più vasta a livello nazionale.
Nel febbraio 2013 il governo di Yingluck sostenne pubblicamente un processo di dialogo, iniziato dalla Malesia, che mirava ad esplorare la possibilità di un accordo negoziato del conflitto meridionale. Si tennero tre incontri a Kuala Lumpur nella prima metà del 2013, ma i colloqui non sono ricominciati da giugno. Questo lavoro vuole rivedere lo sfondo del conflitto e l’attuale processo di dialogo, gli approcci adottati dal governo, dai gruppi militanti e dai facilitatori malesi, e gli ostacoli incontrati. Nessuna delle due parti si è disposta con sufficiente serietà; i thai sono stati impreparati, mentre i rappresentanti del BRN, uno dei gruppi principali, sono stati inflessibili e arroganti. Eppure l’iniziativa malese rappresenta un passo avanti rispetto ai precedenti colloqui a porte chiuse, e potrebbe essere la base per colloqui più seri se entrambe le parti daranno maggiore impegno.

Il sultanato Malay di Patani è stato per tanto tempo un centro importante dell’islamismo nel sudest asiatico, famoso per aver prodotto studiosi religiosi, che hanno anche lavorato e studiato in molte città del medio oriente, e per essere uno dei luoghi di pubblicazione e stampa di testi islamici. Per secoli Patani ha avuto una relazione di sudditanza lasca con lo stato siamese, precursore dello stato moderno thailandese. Una comunità mercantile attiva di discendenti cinesi creò un centro commerciale vivo ed un centro commerciale giocato attorno alle città portuali della Baia di Patani.

Tutto questo cambiò nel 1909 quando un trattato tra Bangkok e l’impero britannico assorbì formalmente Patani in quello che sarebbe diventato lo stato nazione moderno della Thailandia. Nel secolo seguente, lo stato thailandese ha avuto strategie alternative di assimilazione ed accomodamento, con l’obiettivo di incorporare la popolazione a maggioranza Malay dell’area in una identità onnicomprensiva thailandese. Ma dal momento che l’identità thailandese si basa sul costrutto tabù di nazione, religione e monarchia, i Malay musulmani hanno faticato ad abbracciare la thailandesità, preferendo in molti aderire ad una nazione differente, alle nozioni immaginate di una precedente nazione Patani, un religione differente con l’islam preferito al buddismo ed un re differente, una identità politica a cui la dinastia Chakri è totalmente estranea.
Oggi l’area storica di Patani corrisponde più o meno alle province di Pattani, Yala, Narathiwat più alcuni distretti di Songkla, con una popolazione di circa 1,8 milioni di persone, dei quli 80% è musulmana Malay. (2) In vari momenti del secolo scorso vari gruppi armati hanno sfidato lo stato thai. La fase più seria dell’insorgenza durò dagli inzi degli anni 60 ai primi degli anni 80. In questo periodo un miscuglio di gruppi che includevano il PULO, BIPP, BRN che poi si divise in altri gruppi, lanciarono attacchi armati con omicidi e bombe, e tra questi ci fu il tentativo di uccidere il Re Bhumibol alla stazione di Yala nel settembre del 1977. Agli inizi degli anni 80 comunque il governo di Prem Tinsulanond riuscì a forgiare un patto tra le elite che ridusse la violenza a livello minimo per i due successivi decenni. Le figure militanti dei gruppi furono o cooptate, oppure assassinate o costrette all’esilio in Malesia ed in Europa.
Subito dopo la salita al potere di Thaksin Shinawatra agli inizi del 2001 la violenza a Pattani era di nuovo in crescita. Per ragioni politiche Thaksin si mise al lavoro per minare l’influenza di degli elementi fondamentali dell’accordo dell’era di Prem, chiudendo l’agenzia SBPAC che aveva elargito patronato lavorando strettamente con i capi religiosi politici musulmani Malay ed affidando alla polizia, piuttosto che all’esercito, la sicurezza della regione. Gli errori di Thaksin coincisero con la rinascita degli attacchi, mentre una nuova generazione di militanti nuovi era cresciuta sempre più disillusa dei propri capi precedenti. Un attacco coraggioso ad una base dell’esercito a Narathiwat vide la morte di quattro soldati e il sequestro di un grosso quantitativo di armi segnando il ritorno alla completa insorgenza. Quell’anno seguirono grandi scontri con l’attacco simultaneo, ad aprile, a dodici posti di controllo e basi che culminarono nell’assalto sanguinoso alla storica moschea di Kru Ze, seguito dall’incidente di Tak Bai quando 78 Malay musulmani rimasero soffocati durante il loro incarceramento nei camion dell’esercito. Furono questi degli atti di una grandissima propaganda vittoriosa per l’insorgenza.

Mentre non è accaduto nulla della scala degli incidenti di Kru Ze e Tak Bai, continua fino al giorno attuale una guerra implacabile di attrito di insorgenza. Ci sono stati ripetuti cambiamenti tattici nell’insorgenza, mentre i militari usavano varie risposte tra le quali arresti di massa e tentativi di rimuovere simpatizzanti e sospettati dalle loro comunità per dei periodi di “addestramento” nei campi militari fuori della regione. Nessuno dei metodi ha avuto grande successo anzi sono riusciti ad ottenere un rafforzamento delle attitudini antistatali tra i Malay musulmani della regione. C’è stata di recente un’attenzione maggiore dei militanti su obiettivi duri come membri delle forze di sicurezza thailandesi.
Sia i capi militari che politici hanno spesso inquadrato il problema meridionale in termini di “sviluppo” incanalando risorse di progetti nella regione che in genere non sono riusciti a dare benefici ai presunti riceventi. In realtà non ci sono prove che problemi socio economici giochino un ruolo di ispirazione nell’insorgenza. Un altro depistaggio è stata la questione dei crimini legati all’insorgenza. Per lungo tempo le autorità hanno apertamente affermato che tanta violenza era portata avanti da attività criminale organizzata, dal contrabbando e dal commercio della droga. Ma tutto punta chiaramente nella direzione inversa. Il crimine nella regione è sostenuto da un conflitto attuale violento che è politico(3).
La struttura del movimento resta poco chiara. Senza dubbio gran parte della violenza è fatta da piccole cellule di giovani, Juwee, che hanno da 18 a 25 anni, che operano in modo relativamente indipendente dopo un periodo di reclutamento e addestramento. (4) Le forze di sicurezza considerano che tutti i juwee lavorino sotto gli auspici del BRN-C, secondo cui questa è un’organizzazione gerarchica con una propria struttura di capi provinciali e di distretto che riflettono lo stato thailandese. Secondo altri, si è in presenza di un network più che di una gerarchia. Legati insieme da una struttura limitata, le cellule individuali costituiscono una unità autogestita di violenza. Se l’insorgenza è costituita più come una rete che con una struttura gerarchica e se almeno alcune cellule non operino sotto un comando centrale, la sconfitta del movimento militante sarà davvero una sfida difficile da conseguire.

Verso una soluzione politica

Il conflitto pone in dubbio la legittimità dello stato thailandese, e come altri conflitti simili nel mondo, ha bisogno urgente di una soluzione politica che, pur dovendo ancora essere definita, richiederà presumibilmente una qualche forma di autonomia che può andare da governatori eletti a una regione completamente autogovernata (5). Agli inizi della ripresa dell’insorgenza nel 2004, il governo di Bangkok negava la natura del conflitto, e non voleva prendere in considerazione scelte che coinvolgesseo qualche forma di autonomia. Più di recente, ha prevalso un maggior realismo e la gran parte degli attori principali da parte thailandese sono coscienti, almeno in privato, del bisogno di una soluzione politica, sebbene continuino a negarlo in pubblico. La Thailandia resta una nazione fortemente centralizzata con una nozione in stile francese di identità: tutti i cittadini devono essere thai e l’esistenza di minoranze etniche non è costituzionalmente riconosciuto. Quindi accettare di decentralizzare il potere verso minoranze etniche e/o religiose, geograficamente localizzate come i Malay Musulmani, sarebbe un passo da intraprendere molto radicale per Bangkok.
Sin dal 2005 si sono fatti vari tentativi di stabilire un dialogo verso una soluzione politica tra i quali quello sostenuto dal primo ministro malese Mahatir del 2006, dal vice presidente indonesiano Jusuf Kalla del 2008 e da varie organizzazioni internazionali che lavorano nel campo della costruzione della pace. In quest’ultimo caso c’era un’organizzazione svizzera che dal 2008 al 2011 lavorò a stretto contatto col governo Abhisit, ed un’organizzazione finlandese che nel 2009 fece vari tentativi forti ma privi di successo per insinuarsi nel processo di dialogo (6).

Nessuna di queste iniziative portò ad importanti sviluppi in parte perché tendevano a concentrare i loro sforzi su particolari elementi dentro lo stato thailandese, come NSC o l’ufficio del Primo Ministro, piuttosto che entrare in contatto con tutte le possibili agenzie dello stato (7).
Se si considera la natura diffusa del potere dentro lo stato thailandese, qualunque iniziativa di successo richiederebbe un sostegno vasto. La natura frammentaria e polarizzata della politica a Bangkok costituisce uno degli ostacoli maggiori ad un accordo politico. Dal golpe militare del 2006 la Thailandia si è divisa fortemente tra sostenitori e oppositori dell’ex premier Thaksin che hanno lanciato, con successo, massicce proteste di strada a Bangkok, in modo ripetuto, con la conseguente paralisi del sistema politico fino alla recente paralisi del 2013-2014.
Un problema analogo è evidente nell’insorgenza. A causa della natura diffusa dell’insorgenza e della mancanza di gruppi chiaramente identificabili che controllino la violenza politica, non è stato facile identificare chi potrebbe o dovrebbe rappresentare i militanti in qualunque iniziativa di dialogo. I precedenti processi hanno visto essenzialmente la presenza di gruppi non militanti, vale a dire Malay Musulmani senza legami diretti con i gruppi militanti ma con accesso a canali alternativi o con una visione importante, ed ex militanti o militanti in esilio, la cui connessione con i Juwee era per lo meno non provata se non del tutto inesistente.

Il terzo maggior problema che si trova davanti qualunque processo di dialogo è la domanda di chi si trova nelle migliori condizioni per facilitare o mediare tra le autorità thai e gli insorti. Agenti non statali potrebbero godere di vantaggi in tali situazioni, ma mancano della massa di risorse dei governi. I governi dei paesi vicini forse possono dare un grande contributo, ma paesi come la Malesia e l’Indonesia sono visti troppo vicini alla comunità musulmana di Patani.

Il processo di dialogo di Kuala Lumpur del 2013

Sin dagli inizi del 2013, il governo malese ha mediato in favore di un nuovo processo di dialogo che ha ottenuto il sostegno del governo thailandese, ottenendo il sostegno pubblico di entrambi i governi. I primi ministri Yingluck Shinawatra e Najib Razak presero parte, il 28 febbraio del 2013, alla cerimonia pubblica della firma di un “documento di consenso generale” accompagnati da un grande clamore (8).

Si stabilì un gruppo di negoziazione vasto da parte thailandese. Da parte del movimento c’è un gruppo di rappresentanti che affermano di appartenere al BRN, portati al tavolo del negoziato dalle forze di sicurezza malese. I colloqui incapparono in una seria discussione nel giugno 2013 quando il BRN fece una serie di cinque richieste forti che lo stato thai fece fatica ad affrontare. Un cessate il fuoco per il ramadan a luglio portò inizialmente ad un declino della violenza, ma fu violato da alcuni degli insorti e sabotato alla fine dalle forze armate thai. A settembre del 2103 gli insorti provarono a chiarificare le proprie posizioni presentando un documento che mirava a convincere i thailandesi che le cinque richieste erano una posizione negoziale, non un insieme di precondizioni predeterminate. I tentativi di ripresa dei negoziati alla fine del 2013 furono contrastati dalle proteste di strada a Bangkok, ma la parte malese restava ottimista della ripresa possibile dei negoziati.

Il gruppo di pace Thailandese.

Il gruppo thai di dieci membri nei colloqui di Kuala Lumpur era guidato dal generale Paradorn segretario del NSC, dal generale Niphat Thonglek, vice ministro alla difesa e dal colonnello di Polizia Tawee Sodsong del SBPAC (10).
La forza del gruppo risiedeva nel vasto tipo di istituzioni coinvolte ma era anche evidente la sua debolezza: non c’era alcuna figura di alto rango, nessun ministro o segretario permanente o comandante dei militari. L’analista Don Pathan, critico aperto e continuo del processo di Kuala Lumpur, chiamava il gruppo negoziatore “Il gruppo di Thaksin”, dal momento che erano considerati legati o ammiratori di Thaksin, ed erano stati chiaramente scelti più per la loro orientazione politica che per la posizione formale. L’assenza dei capi dei militari era particolarmente significativa. I militari consideravano con molto sospetto il processo di dialogo iniziato da Thaksin e mantennero una certa distanza. In pratica i colloqui erano portati avanti da Paradorn, Niphat e Tawee. Due partecipanti thailandesi Srisompob Aziz erano considerati “rappresentati della società civile” portati al tavolo dei negoziati all’ultimo minuto senza alcun mandato per parlare a nome dello stato thai, il cui ruolo sembrava essere di fornire rassicurazioni e ulteriori prospettive. I thai non avevano un segretariato costituito ed i facilitatori malesi erano costretti a contattare Paradorn o Tawee personalmente per fare tutte le procedure per gli incontri.
Il gruppo thai non andava a Kuala Lumpur con un piano ben delineato. Nonostante i militari parlassero di una Roadmap, non ci fu mai alcun accodo preventivo da parte thailandese che, ben presto, si trovarono mal messi quando l’incontro iniziale del 28 marzo si soffermò principalmente sulle domande poste dal BRN. La parte Thai non si è mai ripreso l’iniziativa e negli incontri successivi il BRN continuò a chiedere l’accettazione dei cinque principi come base per ulteriori colloqui. I Thailandesi non avevano alcun chiaro principio fondamentale. Thaksin aveva dato inizio al processo e Yingluck aveva dato la propria approvazione firmando un accordo a Kuala Lumpur il 28 febbraio 2013. Ma una volta che i colloqui iniziarono c’era poca chiarezza sul piano thailandese, e non c’erano segni espliciti da Bangkok che un accordo politico, come una qualche forma di autonomia, potesse essere messa sul tavolo del negoziato. Nessun politico importante si impegnò a fare dichiarazioni pubbliche per preparare politicamente questo evento, e l’insorgenza naturalmente temeva che i Thailandesi non fossero seri o sinceri sulla risoluzione del problema. I Thailandesi continuavano a parlare della necessità della riduzione della violenza, ma senza indicazioni sul come potesse essere raggiunta.
Complessivamente l’approccio thailandese era amatoriale, mancante di un piano e di una strategia. Sarebbe facile trarre la conclusione su una mancanza di sincerità o impegno nel processo, il che potrebbe anche essere vero. Ma gran parte delle grandi politiche in Thailandia hanno caratteristiche piuttosto simili andando dai dialoghi della sicurezza dell’ASEAN ai tentativi del governo Yingluck di trattare con manifestazioni di massa ostili. Se i thai non sembravano sempre sapere quello che stavano facendo in relazione ai colloqui di dialogo iniziati dalla Malesia, in parte è perché i rappresentanti Thai spesso non sembravano sapere esattamente quello che stavano facendo. Ma data l’importanza dei colloqui ed il numero di vite in pericolo, il loro essere amatoriali era fortemente sconfortante.

Il Gruppo degli insorti

Il gruppo che rappresentava l’insorgenza era anche più problematico di quello Thailandese. Era guidato da Hssan Taib del BRN insieme a due rappresentanti della divisione affari esteri, un’altr figura anziana del BRN, un rappresentante del BRN Ulama, un altro della frazione giovanile e Lukman Bin Lima di una fazione del PULO (12). Era un segreto noto che Hassan non era uno dei capi del BRN e nei colloqui a parlare erano altri membri del gruppo. Il suo ruolo era di collegamento con il governo malese, ed era stato coinvolto nei precedenti tentativi da parte malese per fare un accordo risalente al periodo del governo del dopo golpe di Surayud Chulanont del 2006. Quando Thaksin volle incoraggiare un processo di pace, ed il leader Najib era anche alla ricerca di come migliorare la propria statura nazionale ed internazionale durante il periodo pre-elettorale, la Malesia si rivolse di nuovo a Hassan Taib per mettere su un gruppo di negoziato. Una figura più anziana del BRN a cui fu chiesto di farlo rifiutò, e Hassan fu messo dentro dai servizi di sicurezza e dalla sezione speciale malese. Hassan firmò l’accordo per prendere parte ai colloqui a nome proprio piuttosto che per il BRN. All’inizio non ottenne il sostegno ufficalemente dal corpo centrale del BRN, il Dewan Pimpinan Parti (13). Dovette sin dall’inzio aver a che fare con l’opposizione al processo dall’interno dei militanti. Secondo una fonte il BRN era diviso in tre campi: un terzo sosteneva il dialogo, un terzo si opponeva con forza ed un terzosi riservava il giudizio.
Considerato lo scetticismo sul processo di dialogo, i negoziatori del BRN adottarono una posizione estrema sin dagli inizi cercando di fissare l’agenda dei colloqui mediante una forte articolazione delle loro cinque richieste. Esse erano: il riconoscimento del BRN come rappresentante della popolazione di Patani; riconoscimento della Malesia come mediatore e non facilitatore; coinvolgimento delle nazioni dell’ASEAN, della OIC e di ONG nel processo; riconoscimento dell’esistenza e della sovranità della nazione Malay di Patani; il rilascio di tutti i militanti detenuti.
Il BRN usò la via pubblica nel modo più moderno possibile in un video dove poneva le sue richieste su Youtube nel tentativo chiaro di bypassare le procedure formali e di prendere l’iniziativa delle relazioni pubbliche poco prima del secondo incontro (14). Ma questo irritò sia i thailandesi che i facilitatori malesi, rivelando anche che l’insorgenza non riusciva a comprendere come conquistare degli amici o l’influenza del pubblico.Rispetto al gruppo Thailandese i negoziatori del BRN erano molto più attenti allo spingere secondo un progetto chiaro, anche se il modo di portarlo avanti rifletteva gli anni di isolamento e di esilio. Sembravano incapaci o non volenti di capire che un processo di dialogo coinvolge necessariamente un processo esteso in cui si esplorano le aree di un accordo possibile.
Questi difetti riflettevano la mancanza da parte del BRN di un braccio politico, un gruppo fidato di non combattenti il cui obiettivo è di far avanzare gli obiettivi dell’organizzazione attraverso mezzi non militari. Un ulteriore problema con l’attenzione del BRN, che fa coppia con la fissazione delle forze armate thai sul ruolo del BRNC dietro l’insorgenza, è che potrebbe dare all’organizzazione eccessivo credito, facendo sì che le loro richieste fossero viste come rappresentative della popolazione di Patani. Se tanti dei Juwee sul terreno siano legati al BRN o non facciano parte d’un gruppo di insorti formale, può essere un problema serio il fulcro dei colloqui del BRN. I malesi hanno sempre sostenuto che volevano creare un processo più inclusivo che immetteva altri militanti come altri elementi del PULO.

La Facilitazione malese

L’iniziativa di dialogo lanciata dalla Malesia riflette l’interesse diretto del premier Najib, ed è guidata da un rappresentante quasi in pensione Ahmad Zamzamin hashim che era direttore della divisione di ricerca dell’ufficio del Primo Ministro. E’ chiaro che ma Malesia ha interessi diretti nell’aiutare a risolvere il conflitto violento che ha luogo lungo la sua frontiera settentrionale. E’ un segreto di Pulcinella che centinaia di migliaia di Malay Musulmani nelle aree di confine hanno illegalmente una doppia cittadinanza, malese e thailandese. Molti dei capi attuali e passati del movimento Patani vivono in Malesia, la maggioranza dei quali sotto l’occhio vigile della sicurezza speciale e dei servizi segreti. Per questa ragione Zamzamin potè mettere su un gruppo di negoziatori per il colloqui di pace. Zamzamin ha un forte sostegno da otto membri del Consiglio di sicurezza nazionale che costituisce un segretariato del processo, un’operazione molto più robusta degli accordi ad hoc da parte thailandese.
Una lezione che viene da conflitti simili è che i paesi vicini che sono stati implicati storicamente devono essere messi dentro per poter ridurre la violenza. Il ruol odella Repubblica i Irlanda nel conflitto dell’Irlanda del Nord è un esempio ovvio. La questione maggiore è se un vicino storicamente implicato può forgiare un accordo in contrasto al sostegno.
Molti militanti di Patani sono scettici sul ruolo malese di onesto autoproclamato negoziatore. Essi hanno una relazione di amore ed odio con lo stato malese che ha dato loro una zona franca ma ha monitorato strettamente e controllato le loro attività, talvolta per decenni. Ovviamente lo stato thailandese ha fondati timori delle intenzione malesi nella regione temendo sia che miri ad un incorporamento di Patani nel proprio territorio, o di sponsorizzare le aspirazioni separatisti dei suoi consanguinei lungo la frontiera settentrionale. Mentre in realtà l’attuale governo sarebbe fortemente opposto ad incorporare Patani nel proprio territorio, che potrebbe diventare roccaforte dell’opposizione, la fatica vera è di far sì che i militari ed il governo thailandesi si liberino dei propri punti di vista antimalesi.
La parte malese ha insistentemente chiesto un cambiamento del loro status da facilitatore a mediatore e partecipante. In realtà la parte malese sta agendo come qualcosa di più di un facilitatore. La cosa si fece evidente nel settembre 2013, quando Zamzamin andò a Bangkok da Kuala Lumpur per spiegare le cinque richieste del BRN al genrale Paradorn. La delegazione malese (che non includeva alcun rappresentante militante) fornì un documento di 38 pagine unitamente ad una presentazione in Powerpoint che lavorava sulle richieste, spiegando la compatibilità con la costituzione thailandese ed offrendo concessioni (offerte punto per punto in cambio) da parte del BRN se i Thai accettassero i principi che contenevano. C’era il sospetto vasto che il documento dettagliato era stato prodotto dall’ufficio di Zamzimin. Sia le richieste stesse che il modo in cui erano state poste sembravano riflettere le preoccupazioni della parte malese. Al centro del documento era la richiesta malese di essere considerata paese mediatore, come parte di un processo di passaggio da colloqui per un dialogo di pace a negoziati di pace. Questo si giustificava in parte in riferimento alla terza richiesta, in quanto la Malesia fa parte sia dell’ASEAN che della OIC.
Dopo i problemi relativi al cessate il fuoco del Ramadan del 2013, la Malesia lanciò una certa offensiva diplomatica per provare a riprendere l’iniziativa e mantenere il momento dei colloqui. Dopo quella puntata di Zamzimin con la presentazione in Powerpoint, Zamzimin lanciò una varietà di altre iniziative in assenza di ulteriori incontri formali di partner di dialogo, come l’apertura alle altre fazioni del PULO che firmarono un accordo di novembre per prendere parte ad ulteriori colloqui, come l’andare in Indonesia a parlare con rappresentanti di altre fazioni militanti ed incontri con la stampa thailandese per avere più sostegno per il processo di febbraio 2014. Comunque tutto questo non è servito a far riprendere i colloqui faccia a faccia. I profili di alto livello dei collqui di pace di Mindanao, in cui la Malesia è coinvolta come mediatore, ha accresciuto la pressione su Zamzimin per dar buone nuove nel meridione thailandese, sebbene in realtà non sia un bel paragone se si guarda al tempo impiegato dal processo filippino (15).

L’iniziativa di pace del Ramadan
I malesi non erano che ambiziosi sui colloqui. Parlando a Patani il 28 febbraio Zamzimin ammetteva che aveva sperato di vedere una cessazione delle ostilità entro il 2015. Il primo passo verso questo fine era stata l’iniziativa del Ramadan, un’iniziativa di 40 giorni a cominciare dal 10 luglio 2013. Designata come misura di costruzione della fiducia, il cessate il fuoco era una mossa forte che i facilitatori speravano avrebbe creato un inesorabile momento verso la pace. Il problema era che il proposto cessate il fuoco giungeva solo dopo tre incontri tra le due parti, e non era affatto chiaro quello che ogni parte poteva fare. Elementi delle forze armate non erano ancora al tavolo del processo mentre i rappresentanti del BRN avevano solo una influenza limitata sui Juwee.
In realtà, ci fu una diminuzione significativa della violenza nella prima settimana del Ramadan, e secondo Deep South Watch, nell’intero mese ci fu meno violenza che in ogni altro periodo dei nove anni precedenti (16). Comunque ci furono incidenti brutti nei primi giorni che minarono la credibilità del cessate il fuoco. Ci furono continui attacchi dei militanti, mentre le forze di sicurezza thai non aderirono alle linee guida dettagliate di sette pagine su cui c’era l’accordo a Kuala Lumpur, sotto cui i militari avrebbero dovuto mantenere un profilo basso e diminuire la loro presenza nelle aree sensibili. Il 19 luglio un’unità dell’esercito fece una mossa i credibilmente forte: un plotone di uomini si spostò per dieci ore nella giungla per attaccare un campo dell’insorgenza a Narathiwat (17), fatto che apparve un tentativo deliberato di elementi della sicurezza di sabotare i colloqui.
Nella prima settimana di agosto, il BRN annunciò, con un ennesimo annuncio su Youtube, il proprio ritiro dal cessate il fuoco e sospese la sua partecipazione ai colloqui. Questo fu molto più aggressivo dei precedenti e mostrava uomini armati mascherati piuttosto che membri identificabili del gruppo di dialogo, un segno di insoddisfazione dei duri dell’insorgenza. Ci fu un’immediata e dura scalata negli attacchi con l’omicidio di Yacob Raimanee, imam della moschea centrale di Pattani che era stato un importante sostenitore del processo di pace. Quello che successe dopo diede un colpo serio alla credibilità dell’iniziativa di Kuala Lumpur. Ma il cessate il fuoco dimostrò che i negoziatori del BRN apparentemente avevano la capacità di ridurre la violenza particolarmente nelle aree centrali di Pattani e Yala; nelle aree periferiche delle regioni meridionali avevano meno controllo dove gli altri gruppi erano più forti (19). La lezione più grande dell’iniziativa del ramadan fu il controllo limitato che il NSC e SBPAC potevano esercitare sulle forze di sicurezza, specie le forze armate. Un prossimo cessate il fuoco avrà bisogno di essere implementata meglio e con un monitoraggio molto migliore.
All’indomani dell’iniziativa abortita del Ramadan, il BRN furono molto più ostinati sulla necessità che i Thailandesi dimostrassero la loro sincerità sottoscrivendo le cinque richieste e chiesero persino che le richieste fossero ratificate dal parlamento come base per ulteriori negoziati. Una tale richiesta faceva vedere fino a che punto il BRN si spingeva, dal momento che una sottoscrizione del parlamento in questa fase iniziale non era del tutto realistica. Ma i Thai furono anche lenti nel rispondere al BRN e bisogna arrivare al 25 ottobre per una lettera di Paradorn in cui si accettava unadiscussione ulteriore sulle richieste. L’incapacità di una risposta più pronta e positiva accrebbe le pressioni su Hassan Taib che, in un breve video postato su youtube del 1 dicembre, parlava di sè come ex delegato del BRN, un video costruito apertamente come se suggerisse che si fosse dimesso (20). Poi scomparve dalla vista pubblica, sebbene in privato assicurasse le persone attorno a sé che non aveva terminato formalmente la propria partecipazione ai colloqui. Ma l’incapacità malese di far ricomparire Hassan oppure di nominare un rimpiazzo ebbe l’effetto di minare ancor di più la fiducia popolare nel processo di pace.
Dopo il disastroso tentativo di far approvare la legge di amnistia di vasto raggio nel novembre 2013, il governo di Yingluck si trovò di fronte a grandi proteste di massa da parte dei gruppi di opposizione della capitale, e fu costretto a sciogliere il parlamento a Dicembre. La dissoluzione del parlamento, però, non fece nulla per calmare i suoi oppositori che chiamarono un altro gruppo di manifestazioni parallele che miravano ad un Chiudere Bangkok per il 13 gennaio del 2014. Le elezioni del 2 febbraio furono boicottate dal partito democratico dell’opposizione e questo non allentò la situazione. Incapace di funzionare con una qualche normalità il governo facente funzione di Yingluck perse l’interesse nel trattare con il conflitto del meridione. Gli ufficiali come Paradorn furono attenti più alla gestione della sicurezza dell’amministrazione più che portare avanti i colloqui di pace col BRN. In seguito ad un decisio e legale sulle circostanze della sua nomina, Paradorn stesso si trova di fronte ad una probabile rimozione come capo del NSC nell’aprile del 2014, lasciando potenzialmente la parte thai senza un presidente.

Valutare il processo di pace

Il processo di pace mediato dalla Malesia è finora il processo più credibile dei tanti visti in relazione al conflitto meridionale, sebbene abbia visto una serie di sfide (22). Da parte thailandese il gruppo del dialogo deve lottare internamente con la percezione di essere il “gruppo di Taksin”, rappresentanti di una fazione politica con pochissimo sostegno o credibilità da parte del partito di opposizione o dei militari. Il gruppo si è anche caratterizzato per la mancanza di preparazione, di tensioni interne, dove gli attori chiave non godono di buone relazioni, e di mancanza di sostegno amministrativo. Soprattutto comunque la parte thailandese ha sofferto della mancanza di un vasto sostegno nazionale. Ci sono poche prove che il governo Yingluck sia profondamente impegnato nel perseguire una soluzione politica al conflitto meridionale.
Dalla parte dell’insorgenza, il gruppo del BRN ha dovuto lottare per gestire le proprie relazioni con la Malesia e le fazioni diffuse e vaste del movimento più vasto. La sua affermazione di rappresentare l’intero movivmento di Patani sono alquanto tendenziosi e le sue strategie negoziali sono state arroganti ed inette. Cionondimeno una fonte vicina al movimento ha affermato che c’è ancora una base di ottimismo per il futuro (22) suggerendo che i colloqi non sono stati né un fallimento né morti ma solo sospesi.
La critica più forte del processo è venuto dall’analista di stanza a Yala Don Pathan che ha descritto i colloqui come “qualcosa a metà strada tra una bufala ed un grande salto di fede” (23). Al cuore della sua critica sta il credo che il gruppo el BRN non ha contatto con la gran parte dei guerriglieri sul terreno e quindi non può rilasciare una soluzione (24). Egli considera le cinque richieste come un metodo per testare le acque più che affermazioni reali della loro posizione negoziale. Egli critica ugualmente la parte thailandese per la loro posizione pro-Thaksin e la mancanza di sostegno da parte delle forze armate.
La Malesia fronteggia una forte critica sia da parte thailandese che dell’insorgenza per cui avrebbe una propria agenda di portare avanti i propri interessi, e perché non avrebbe quella posizione giusta per giocare il ruolo dell’intermediario onesto. Ma l’attuale processo resta ancora la cosa più seria in giro ed è stata sostenuta largamente nel profondo meridione specialmente dai cittadini Malay musulmani ordinari. Per la prima volta dalle affermazioni di Thaksin del 2005, in cui diceva di creare una commissione di riconciliazione nazionale per indagare sui casi nel conflitto del profondo meridione, la gente nella regione sente che stanno ricevendo un po’ di attenzione seria da Bangkok. Varie iniziative dei gruppi della società civile nella regione riflettono i tentativi di base per promuovere la pace dal basso, e questi sono degni di maggiore sostegno.
Infine, il processo di pace non avrà successo senza un impegno reale da entrambe le parti per una soluzione politica. Ma anche in questo caso tutte le parti avranno bisogno di affrontare alcuni problemi strutturali e procedurali che continueranno a minare qualunque processo negziale.
La parte thai deve rilanciare il suo gruppo riducendo la grandezza della delegazione ed includendo figure dei militari interne al comando delle forze armate. Per un sostenimento migliore del processo il governo thai deve istituire un segretariato a tempo pieno legato all’ufficio del primo ministro a cui assegnare un gruppo fondamentale di gente fortemente capace. Il processo avrebbe idealmente una supervisione ministeriale o persino una partecipazione diretta, ed il primo ministro dovrebbe relazionare al governo, al parlamento e al pubblico sui progressi negoziali. La direzione politica di alto livello deve essere usata per preparare il paese, sia a livello di meridione che di tutto il resto, alla prospettiva di un accordo politico. Ci sarebbe bisogno di cercare un accordo con il partito democratico e altre forze di opposizione affinché il raggiungimento della pace nel profondo meridione sia un obiettivo di tutti, e che qualunque governo dopo quello di Yingluck continuerebbe a sostenere il processo attuale di dialogo, magari in un formato diverso.
I militanti dovrebbero sviluppare una chiara ala politica che li rappresenti nel processo, un segretariato ed un gruppo di consiglieri che preparino le opzioni politiche e sviluppino risposte alle domande poste nei negoziati. Si dovrebbe avere un gruppo più vasto di gruppi militanti ad essere rappresentati per raggiungere una maggiore presa. I negoziatori del BRN avrebbero bisogno di adottare un approccio più pragmatico al processo piuttosto che giocare col rischio calcolato.
I malesi dovrebbero rinunciare in parte alla loro agenda di diventare mediatori dal momento che nella pratica già lo fanno. Parlare su questo serve solo ad accrescere i sospetti thailandesi e dell’insorgenza. Se si accontentassero di permettere al processo di evolvere in modo più organico sarebbe una cosa ben accetta.

Conclusioni
Il governo Yingluck si trova di fronte a varie pressioni politiche e giudiziali che potrebbero portare alla sua rimozione nelle settimane e mesi prossimi. C’è la possibilità che assuma il potere un’amministrazione più conservatrice, una più vicina ai democratici e ai militari. Questa amministrazione subirebbe costantemente le proteste e gli attacchi alla sua legittimità, con una conseguente limitata capacità di seguire le vicende del conflitto. Ma a medio termine un nuovo governo di questo genere probabilmente potrebbe non vedere di buon occhio un processo iniziato da Thaksin e potrebbe essere tentato di abbandonarlo in base a considerazioni partigiane. Sarebbe un enorme peccato se quanto guadagnato nello scorso anno fosse distrutto da una prossima amministrazione che distrugga semplicemente l’iniziativa di Kuala Lumpur. Detto con poche parole qualunque processo di pace è meglio dell’assenza di un processo di pace.

DUNCAN MCCARGO, Lowyinstitute

Notes

[1] For overviews of the conflict see International Crisis Group, Thailand: the Evolving Conflict in the South, Asia Report No. 241, 11 December 2012; Duncan McCargo, Tearing Apart the Land: Islam and Legitimacy in Southern Thailand, Ithaca, NY: Cornell University Press, 200); International Crisis Group, Southern Thailand: Insurgency, Not Jihad, Asia Report No. 98, May 2005; and Supalak Ganjanakhundee and Don Pathan, Santhiphap nai plaew phleung [Peace In Flames] (Bangkok: Nation Books, 2004).

[2] At the time of the 2000 census, there were just over 350,000 Buddhists from a total population of 1,748,682 in the three provinces. Narathiwat had a population of 680,303 with an 83.5 per cent Muslim majority, while the figures for Pattani were 628,922 (82 per cent Muslim) and Yala 439,456 (71 per cent Muslim). Population and Households Census 1970, 1980, 1990, 2000, National Statistical Office (Bangkok: Prime Minister’s Office, 2003).

[3] See Srisompob Jitpiromsri and Duncan McCargo, “The Southern Thai Conflict Six Years On: Insurgency, Not Just Crime’, Contemporary Southeast Asia, 32, No. 2, August 2010, pp. 156–83.

[4] For relevant discussions see McCargo 2008, Tearing Apart the Land, 168-75, Joseph Chinyong Liow and Don Pathan, Confronting Ghosts: Thailand’s Shapeless Southern Insurgency , Lowy Institute Paper 30, Double Bay, NSW: Lowy Institute for International Policy, 2010; International Crisis Group, Recruiting Militants in Southern Thaliand, Asia Report No. 170, Bangkok and Brussels: ICG, 2009.

[5] See Duncan McCargo, “Autonomy for Southern Thaliand: thinking the unthinkable?” Pacific Affairs, 83, No. 2, June (2010) 261-281.

[6] See Gerard B. McDermott, Barriers Toward Peace in Southern Thaliand, Peace Review: A Journal of Social Justice, 25 No. 1 (2013) 120-28.

[7] For a discussion see Patani Forum, Negotiating a Peaceful Coexistence between the Malays of Patani and the Thai State, Pattani: Patani Forum November 2012.

[8] Matthew Wheeler, “Thailand’s Southern Insurgency in 2013,” in Daljit Singh (ed.) Southeast Asian Affairs 2014, Singapore: ISEAS, forthcoming.

[9] This team was also supplemented by 2-3 additional members there in a support role, which meant that the 6-7 militant representatives faced around a dozen Thai participants: a case of quantity rather than quality.

[10] Other members comprised General Samret Srirai, Office of the Permanent Secretary of the Ministry of Defence; Police Lieutenant-General Saritchai Engkwiang, Commander, Special Branch; Major General Nakrop Bunbuathong, ISOC; Apinan Sothanuwong, Governor of Narathiwat (who was replaced for the 13 June 2013 dialogue meeting by Pramuk Lamul, Governor of Pattani ); Dr Srisompob Jitpiromsri, Assistant Professor at Prince of Songkla University, Pattani, and Director of Deep South Watch; Aziz Benhawan, Muslim community leader from Pattani; and Major-General Charin Amornkaew, Fourth Army Region, Chief of Staff (later made Deputy Commander).

[11] Don Pathan is one of the most respected analysts of the southern conflict. He is the former regional editor of The Nation, co-author of a book on the insurgency, and a prime mover behind the civil society group Patani Forum.

[12] At the first meeting on 28 March there were only six militant representatives; an additional senior BRN figure joined the subsequent meetings.

[13] Don Pathan, “Doubts over BRN Chief’s Control of South Rebels”, The Nation, 1 March 2013. Additional information from confidential interviews.

[14] In all, BRN issued 6 videos concerning the talks on YouTube in 2013: 26 April 2013 with Hassan Taib; 29 April 2013 with Haji Adam Muhammad Noor; 28 May 2013 with Abdulkarim Khalib and Hassan Taib; 24 June 2013 with Hassan Taib; 6 August 2013; and 1 December 2013 with Hassan Taib.

[15] See for example Floyd Whaley, “Philippines and Rebels Agree on Peace Accord to End Insurgency,” New York Times, 25 January 2014, http://www.nytimes.com/2014/01/26/world/asia/philippines-and-rebels-agre….

[16] For a relatively upbeat assessment of the ceasefire, see Srisompob Jitpiromsri and Anders Engvall, “A Meaningful Peace: Ramadan Ceasefire Assessment,” Deep South Watch, 9 September 2013, http://www.deepsouthwatch.org/sites/default/files/dsw_analysis_-_a_meani….

Deep South Watch is a civil society organization based on the campus of the Prince of Songkla University in Pattani. It supports monitoring and journalistic coverage of the conflict, and campaigns for a political solution to the violence.

[17] For a more critical assessment see Anthony Davis, “Meaningless ceasefire in South Thailand,” Asia Times, 27 August 2013, http://www.atimes.com/atimes/soueast_Asia/SEA-01-270813.html.

[18] https://www.youtube.com/watch?v=8JE9NiawBL8.

[19] Srisompob and Engvall, “The Southern Thai Conflict Six Years On,” 9.

[20] See http://www.youtube.com/watch?v=bcWmriF3TNM&sns=emBismillah.

[21] For a detailed discussion of the shortcomings of the process and possible ways forward, see the policy paper by Insider Peacebuilders Platform, How Can the Peace Process be Taken Forward? Peace Media Day, PPP101, Pattani, 27-28 February 2014, http://www.deepsouthwatch.org/en/node/5446.

[22] Abu Hafez Al Hakim (pseudonym), Speech for Peace Media Day Festival, Peace Media Day, PPP101, Pattani, 27-28 February 2014, http://www.youtube.com/watch?v=mjKu28s4GMA and http://www.deepsouthwatch.org/en/node/5389.

[23] Don Pathan interview, 17 February 2014.

[24] For recent examples of Don Pathan’s critical arguments, see “Deep South Talks: A Fresh Attempt to Revive the Corpse,” The Nation, 27 February 2014, http://www.nationmultimedia.com/opinion/Deep-South-talks-a-fresh-attempt…, or “Hostage to National Politics: Thailand’s Southern Peace Initiatives,” Asian Peace Initiatives, 27 January 2014, http://peacebuilding.asia/hostage-to-national-politics-thailands-souther….

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