Due tra le più brillanti organizzazioni di notizie del sudestasiatico sono sotto assalto, e mostrano ancora una volta che dire la verità sul potere in Asia è un’impresa pregna di rischi.
Il sito di notizie Malaysiakini ha avuto un’ingiunzione del tribunale d’appello a pagare 80 mila euro in una causa di diffamazione condotta da un’industria mineraria.
Nelle Filippine i regolatori finanziari hanno revocato la licenza commerciale di Rappler che avrebbe violato le regole che vietano la proprietà straniera.
L’alta corte malese aveva cancellato l’azione legale contro il Malaysiakini nel 2016. Il giudice sostenne che il sito era stato motivato dall’interesse pubblico nel riportare una conferenza stampa degli abitanti di un villaggio che lamentavano di essere stati avvelenati dalle attività minerarie.
Ma il giorno 11 gennaio la corte di appello aveva capovolto la decisione perché ritenne che il racconto del Malaysiakini era inaccurato e sbilanciato.
Poiché il sito non ha le risorse finanziarie delle grandi compagnie dei media, il sito che opera da 18 anni ha lanciato un appello per poter pagare i danni e i costi.
Per quanto riguarda Rappler, in vita da sei anni, anche se la commissione regolatrice finanziaria fosse stata corretta nell’individuare un’irregolarità, discutibile, l’azione punitiva delle autorità era chiaramente eccessiva, perché potenzialmente mette in silenzio il più visto sito di notizie del paese. Di conseguenza l’Unione Nazionale dei giornalisti delle Filippine definì il 19 gennaio il Venerdì Nero in protesta contro questo e gli altri attacchi sulla libertà dei media.
Queste azioni hanno luogo in un momento in cui i due paesi sono in disperato bisogno dell’indagine indipendente e coraggiosa del potere.
La Malesia si avvia ad un’elezione destinata ad essere guidata dal denaro, dall’inganno e la demagogia religiosa. Le Filippine continuano ad essere scossa dagli omicidi extragiudiziali della crudele guerra alla droga di Duterte.
Malaysiakini e Rappler sono tra le voci locali più franche e persistenti nel raccontare queste storie.
Il palazzo presidenziale ha provato a minimizzare l’annuncio del 15 gennaio. Il suo portavoce Harry Roque disse che la soppressione di Rappler non rappresentava una violazione dei diritti dei suoi giornalisti alla libertà di espressione. “Possono ancora essere dei blogger, questo è chiaro”
Questa affermazione potrebbe aver valore con chi usa i media sociali per i quali libertà online equivale ad esprimere i propri pensieri o postare le proprie foto.
Ma come sa molto bene Roque, che è avvocato dei diritti umani attivo un tempo nella rete Media Legal Defence Initiative, la libertà di espressione è qualcosa di più del diritto individuale a parlare. E’ anche il diritto delle persone a ricevere informazioni ed idee di cui hanno bisogno per l’autogoverno collettivo.
Per questo non possiamo dipendere solo dagli articoli di individui e blogger non pagati. L’attualità in ogni società moderna è troppo complessa per essere espressa da solitari individui che lavorano per conto proprio. Abbiamo bisogno di gruppi a tempo pieno, organizzati di ricercatori di verità se si deve avere una qualche possibilità contro individui ed organizzazioni potenti con potere notevole di nascondere e ingannare.
E’ qui che si suppone che entrano in gioco i media di notizie professionali.
Naturalmente in tanti si è diventati giustificatamente scettici di media che affermano di servire l’interesse pubblico. In Asia e nel mondo la maggioranza del giornalismo è prodotto da organizzazioni la cui missione professionale è di regola compromessa dagli interessi finanziari e politici dei loro proprietari.
Diversamente dalle professioni mediche e di legge, dove le pratiche del gruppo tendono ad essere gestite e di proprietà dei professionisti stessi, la gran parte delle imprese giornalistiche non è in genere gestita, o non è di proprietà dei giornalisti stessi, ma da uomini di affari, tra i quali conglomerati sempre più diversificati i cui interessi principali sono nelle proprietà, telecomunicazioni e in altri settori che non non sono i media.
In molti casi i proprietari non si preoccupano di celare conflitti di interessi. Gli oligarchi indonesiani, per esempio, non si fanno scrupolo di usare le loro stazioni televisive per promuovere i loro prescelti per un posto di governo.
I proprietari e gestori di The Times of India, il quotidiano in lingua inglese maggiore al mondo, spudoratamente esalta informazione spettacolarizzata amica della pubblicità sul giornalismo di pubblico interesse.
Ma questa è proprio la ragione per cui importano i destini di Rappler e Malaysiakini. Entrambi sono stati fondati e continuano ad essere controllati da giornalisti veterani, e sono stati strutturati per dare agli editori l’autonomia professionale totale interna anche se non si possono proteggere dalle pressioni esterne.
I media di proprietà dei giornalisti giocano una parte vitale di un sistema di media diverso ed in salute. Cene sono tanti nella regione come la Hong Kong’s CitizenNews, The Reporter di Taiwan e The Wire in India.
Per la maggioranza si tratta di organizzazioni no profit che si basano su donazioni e concessioni. Perciò persino all’interno di questa piccola fratellanza Malaysiakini e Rappler sono eccezionali. Hanno tentanto con un qualche successo ad essere fattibili commercialmente persino quando rigettano la proprietà di corporazioni.
Chiunque deplora il dominio dei media da parte della finanza, dove giornalisti professionisti sono sempre in coda, non alla testa, dovrebbero andare in cerca di questi siti ribelli.
Malaysiakini e Rappler sono entrambi progressisti che si affidano alla volontà dei lettori di partecipare alla vita pubblica. Ma quella risorsa è anche minacciata quando l’attenzione pubblica è affaticata da incessanti attacchi alla libertà di espressione ed ai diritti umani. I politologi osservano una certa recessione democratica nel mondo negli ultimi anni. Quando i cittadini vedono in modo ripetuto i capi farla franca da abusi ovvi, è naturale diventare apatici verso la repressione.
L’editore del Malaysiakini Seven Gan lo vede accadere in Malesia.
“Abbiamo un primo ministro che si suppone diriga una cleptocrazia, ed è tuttavia difficile cacciarlo. A causa di ciò, la gente abbandona come se non intravedesse una luce alla fine del tunnel” ha detto. In uno stile da arti marziali Malaysiakini spera di usare la sua attuale difficoltà per attivare la gente e di qui la sua spinta alla raccolta di fondi.
“E’ crisi ed opportunità” concorda Maria Ressa, amministratrice delegata di Rappler, i cui sostenitori sono stati molto attivi nell’esprimere la propria rabbia. “Anche se non abbiamo giustizia in tribunale, se non è così giusta come dovrebbe, il nostro governo è sensibile alla pubblica opinione”.
Insieme alla loro lotta contro la coercizione di stato, tutti e due i siti devono provare ad invertire la crescente paura che viene con l’impunità del potere.
Il loro attuale travaglio sono perciò non solo una prova per la libertà dei media ma anche della capacità di sperare delle loro società.
Cherian George, SCMP