Tutto ciò che il Gambia chiede è che diciate al Myanmar di fermare questi omicidi insensati, di fermare questi atti di barbarie che continuano a scuotere la nostra coscienza collettiva, di fermare il genocidio della sua propria gente.
Sono le parole che il ministro della giustizia del Gambia Abubacarr Tambadou, per nome e conto della Organizzazione della Cooperazione Islamica, ha detto oggi 10 dicembre all’apertura del processo di tre giorni, intentato contro il Myanmar o Birmania alla Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU per genocidio contro la minoranza musulmana Rohingya.
“Questo è davvero una disputa tra il Gambia e Myanmar” ha detto il ministro gambiano Abubacarr Tambadou. “Cerchiamo di proteggere non solo i diritti dei Rohingya, ma i nostri diritti come stato che aderisce alla convenzione del Genocidio chiedendo alla Birmania di tener fede ai suoi obblighi di non commettere genocidio, di non incitare al genocidio e di prevenire e punire il genocidio”.
Il ministro gambiano Abubacarr Tambadou, che fu l’accusa nel tribunale per il genocidio del 1994 nel Ruanda ha ricordato gli “omicidi di massa, gli stupri di massa e le torture di massa, i bambini bruciati vivi nelle case e nei luoghi di culto”, chiede alla Corte Internazionale di Giustizia delle misure di emergenza per prevenire ulteriori danni alla popolazione Rohingya in considerazione del fatto che il processo stesso potrebbe volere alcuni anni prima di giungere a conclusione.
La Corte Internazionale di Giustizia in passato ha nella sua storia un solo processo per genocidio per il massacro di Srebenica in Bosnia del 1995 e molti esperti di diritti umani sono divisi proprio sul fatto che la questa corte abbia giurisdizione e che possa accusare legalmente la Birmania di genocidio.
C’è da dire che la Birmania dovrà affrontare altre accuse legali davanti alla Corte Penale Internazionale de L’Aia per crimini di guerra ed un’altra causa in Argentina.
Presente all’inizio delle audizioni di tre giorni è Aung San Suu Kyi, consigliere di stato e ministro degli esteri di Myanmar, che è rimasta impassibile al discorso del ministro gambiano.
La difesa di Aung San Suu Kyi, che parlerà mercoledì in difesa del Myanmar, verterà attorno al diniego che ci sia stato un genocidio e che nel 2017 ci sono state legittime operazioni militari antiterroristiche dopo gli attacchi dei militanti Rohingya del ARSA sulle posizioni delle forze di sicurezza.
Ci si aspetta anche che la Suu Kyi neghi che la Corte Internazionale di Giustizia abbia alcuna giurisdizione in merito, cosa che dovrà essere definita prima di esaminare il contenuto della denuncia del Gambia.
Sebbene questa corte non abbia comunque dei poteri di polizia concreti, la sua autorevolezza non è in discussione e ha dei poteri legali.
Va anche ricordato come i militari birmani abbiano fatto due processi davanti alle corti marziali ai propri militari che furono scoperti con le mani nel sacco da indagini giornalistiche, come quella del villaggio Inn Din fatto da due giornalisti birmani, arrestati e condannati per possesso di materiale di stato e poi perdonati dal presidente della repubblica. I militari comunque ed il governo birmano hanno sempre negato l’intento genocida definendo questi casi come isolati e puniti. Ma i militari di Inn Din in realtà sono stati già liberati.
Il ministro della giustizia gambiano nel presentare la richiesta di un’ingiunzione della Corte per fermare il genocidio ed i crimini contro i Rohingya ha ricordato quanto scritto nella relazione della Commissione di Accertamento dei fatti dell’ONU per il Rakhine.
Alla commissione non fu dato il permesso di accedere allo stato Rakhine che è rimasto sempre isolato e sotto occupazione militare, e tutte le indagini si basano sulle interviste ai sopravvissuti presenti nei campi profughi di Cox’s Bazar in Bangladesh e sui dati di immagini anche satellitari raccolti.
Nel documento ONU si descrivono in dettaglio quanto avvenne nel villaggio di Min Gyi, dove secondo l’avvocato Andrew Loewenstein che redasse le interviste ai sopravvissuti furono uccise 750 persone tra cui cento bambini che avevano meno di 6 anni.
“Entrai nella casa insieme ad altri quattro vicini e tre di noi avevamo bambini. C’erano corpi morti sul pavimento, giovani del nostro villaggio. Quando entrammo nella casa i soldati chiusero la porta. Un soldato mi stuprò. Mi colpì dietro la nuca e nell’addome. Provavo a salvare il mio bambino di appena 28 giorni, ma lo scaraventarono a terra e morì” dice una testimonianza raccolta dall’avvocato Loewenstein, la cui commissione di accertamento dei fatti concluse che le operazioni militari di agosto 2017 avevano un intento genocida.
In totale sono oltre 730 mila i Rohingya che riuscirono a scappare nell’ultima fuga verso il Bangladesh nel 2017 dove da decenni sopravvivono in campi profughi al limite della sopravvivenza oltre 1 milione di Rohingya fuggiti a varie successive purghe.
Secondo un rapporto dell’Agenzia di Sviluppo Internazionale dell’Ontario, dal 25 agosto 2017 quasi 24 mila Rohingya sono stati uccisi dalle forze birmane, 34 mila furono anche buttate nel fuoco ed altre centomila picchiate. Almeno 18mila donne e ragazze sono state stuprate dalla polizia e dall’esercito e 115 mila case bruciate ed altre centomila danneggiate.
Il ministro della giustizia gambiano ha inoltre ricordato come lo Stato birmano non abbia obiettato, sostenendo le operazioni militari del Tatmadaw contro i Rohingya anche con un discorso di odio e di linguaggio che coltiva il discorso dei Rohingya come una specie invasiva.
La popolazione Rohingya residua in Myanmar è controllata da ordini, da proibizioni e posti di controllo quando non è costretta a vivere in campi di concentramento, come quelli che si stanno costruendo in vista di possibili rimpatri dal Bangladesh.
“Myanmar costruisce più campi di internamento per quei Rohingya che non sono stati già internati. Se i Rohingya devono essere protetti da altri genocidi dipenderà da questo tribunale…”
(Agenzie e giornali vari)