Il sacrificio di Ninoy Aquino è il suo viaggio finale dagli USA a Manila nel 1973, conscio del rischio quasi certo di finire male, quando viene assassinato sulle scalette dell’aereo dai sicari di Marcos
“Quando mi furono tolte le bende dagli occhi, mi ritrovai in una stanza pittata di fresco, di quasi quattro metri per cinque. Le finestre avevano le sbarre e ricoperte con pannelli di legno dall’esterno. Per permettere una certa ventilazione erano stati lasciati alcuni centimetri di spazio tra i pannelli di legno e la cornice della finestra. Sul soffitto della cella era acceso perennemente, giorno e notte, un tubo al neon di luce bianca.
Non c’erano interruttori; la porta non aveva una maniglia, solo una serratura all’esterno. Se non fosse stato per un lettino di ferro senza materasso, la stanza era completamente nuda. Senza sedie, senza un tavolo. Nulla.
Fui denudato. Mi portarono via la fede nuziale, l’orologio, gli occhiali, le scarpe, gli abiti. Più tardi una guardia in abiti civili mi portò un orinatoio e mi disse che mi era permesso di andare al bagno una volta al giorno la mattina, per fare la doccia, lavarmi i denti e lavarmi gli indumenti.
In caso di emergenza, avrei dovuto chiamare la guardia. Mi furono consegnate due mutande e due magliette che alternavo ogni giorno. La guardia trattene lo spazzolino e il dentifricio che avrei dovuto richiedere la mattina successiva. Volevano farmi sentire impotente e dipendente in tutto dalle guardie.
Diokno, che era stato incarcerato con me e rinchiuso in una cella adiacente, in seguito mi avrebbe detto di aver passato la stessa trafila.Avendomi tolto gli occhiali soffrivo di terribili mal di testa. Per i primi tre o quattro giorni, mi aspettavo che le mie guardie fossero le “Scimmie” incaricate di uccidermi.
Sospettando che avessero messo qualcosa nelle mie misere razioni, mi rifiutavo di toccarle. Sopravvissi con sei crakers e l’acqua per il resto del mio soggiorno. Divenni depresso e abbattuto. Ero ossessionato dal pensiero della mia famiglia…”
Arrivò a dubitare della giustizia divina. Un amico gli aveva detto che Dio non dormiva mai. Ma cosa accade se Lui schiaccia un pisolino, pensò Ninoy, “e cosa succede se quando poi si sveglia sarò sparito?”
Questo accadde nel 1973 quando lui e Diokno, incappucciati e in manette, furono portati in elicottero con gli stemmi presidenziali a Fort Magsaysay nella Nueva Ecija e tenuti in cella isolati in due scatole di caldo adiacenti. Per far sapere all’altro di essere ancora vivo di tanto in tanto canticchiavano. Nessuno dei due in realtà aveva le forze per concludere un canto.
Dopo trenta giorni, lui e Diokno furono fatti uscire dalle celle e riportati a Fort Bonifacio. Lì furono rimessi di nuovo in isolamento, interrotto soltanto da rare visite dei familiari. Dopo un anno o poco più, Diokno fu rilasciato, mentre Ninoy rimase in prigione, per un totale di sette anni e mezzo.
“Osservavo una fila di formiche scendere per il muro della mia cella ed un’altra che saliva e scommettevo tra me e me di quale delle due avrebbe dato strada nel momento che si incrociavano. Quando sentivo che la mente mi lasciava, facevo un centinaio di flessioni e poi facevo una doccia e mi riprendevo.”
Ogni anno di prigione è un anno buttato via da quel limitato tempo di vita di un uomo; è una condanna a morte a rate: la vita senza libertà non è vita. Ninoy decise di fare uno sciopero della fame e, se non gli fosse ridata la sua libertà, di morire. La sua morte sarebbe stata attribuibile a Marcos. Un ultimo grido di giustizia, un ultimo atto di vita.
Il 38° giorno di sciopero della fame sua madre lo scongiurò:
“Figlio mio, stai cercando di battere il Signore?”

Soltanto una cosa lo convinse a interrompere il suo sciopero della fame lasciando così intatto il primato divino. Gli fu detto che il governo non lo avrebbe lasciato morire. Qualche giorno ancora di sciopero della fame avrebbe danneggiato il suo cervello in modo irreparabile e allora il governo lo avrebbe costretto all’alimentazione forzata. Ma da quel momento in poi sarebbe rimasto in vita vegetativa. Il governo non avrebbe avuto nessuna colpa.
Durante il suo sciopero della fame fu portato in giudizio dinanzi ad una commissione militare per tutti i possibili crimini contro il regime. Ricordo che in una sessione due guardie lo tenevano sollevato sul podio. Se ne stava lì ad ascoltare senza dire una parola, mentre un testimone del governo, un comandante della guerriglia Huk, lo accusava furioso di coccolare gli Huk, di aver aiutato lui stesso comandante Huk quando lui ne aveva avuto bisogno. In precedenza un altro testimone dell’accusa lo aveva accusato di aiutare l’insorgenza. Era lui l’uomo che Ninoy aveva portato in ospedale, pieno di sangue per delle ferite da arma da fuoco. “Il classico filippino” ebbe a dire Ninoy di questo testimone.
Durante il digiuno, uno degli avvocati di Ninoy fece il giro dei giornali chiedendo loro di stampare la risposta di Ninoy alle accuse rivoltegli contro, accuse su cui quei giornali stavano facendo un brutto gioco. La loro risposta fu negativa, come fu negativa anche alla richiesta che lo scritto di Ninoy potesse apparire come una pubblicità che sarebbe stata prontamente pagata. In seguito il regime avrebbe accusato la stampa americana di aver violato l’etica giornalistica per aver pubblicato un resoconto “di parte” della condotta del regime.
Alle manifestazioni di sostegno allo sciopero della fame, solo poche centinaia di persone partecipavano. Nessun altro sembrava interessato.
Ora stava facendo ritorno a quel mondo.
“Sto andando a casa” mi disse brevemente prima della sua partenza per Manila dagli Stati Uniti.
“Per cosa ritorni?”
Voleva avere un appuntamento con Marcos, disse. Non sarebbe neanche arrivato al di là della pista.
“Hai pensato su quello che ti potrebbe accadere?”
Discutemmo delle possibilità: arresto all’arrivo, seguito di nuovo dal carcere o dagli arresti domiciliari o dalla condanna a morte. Forse la libertà, chissà. Gli chiesi se credesse davvero che lo avrebbe lasciato libero di fare campagna elettorale nelle prossime elezioni contro il regime o come candidato dell’opposizione. Gli ricordai dell’accusa di omicidio da parte di una corte militare che comportava la pena di morte.
“Non credo che mi spareranno. Per l’accusa, se fossi colpevole, ritornerei a casa? Il ritorno sarebbe la prova migliore della mia innocenza. Come potrebbero spararmi allora?”
Gli chiesi a cosa potesse servire il suo ritorno. Il governo avrebbe fato in modo da rendere il suo arrivo un non evento. Sarebbe stato imprigionato o tenuto agli arresti domiciliari, comunque isolato e neutralizzato. Cosa sperava mai di poter fare mai al suo ritorno?
“Andrò da Marcos, se vorrà vedermi. Mi appellerò al suo senso della storia, e del suo posto in essa. Non farebbe di certo pubblicare tutti quei libri se non ci tenesse davvero al giudizio della storia, se non volesse davvero fare una bella figura. Il che sarebbe possibile. Se ci sarà un ripristino ordinato della democrazia e delle liberà per la nostra gente. Altrimenti ci potrebbe essere solo rivoluzione e terribili sofferenze. Gli dò una moderata opposizione di cinque anni per restaurare la democrazia, dopo di che solo i comunisti come un’alternativa a Marcos o al suo successore. Gli offrirò i miei servigi, ma il mio prezzo è la libertà per la gente.”
“Credi seriamente che se riesci a vederlo, ti ascolterà?” gli chiesi.
“Posso soltanto provare. Se è malato come dicono, allora ancor di più gli devo parlare. Se muore all’improvviso, ci sarà una lotta brutale per il potere. Una successione ordinata è possibile solo sotto la democrazia. Deve mettere su un sistema per rendere la successione possibile prima che se ne va. Devo parlargli se posso. Chissà forse mi ascolta. Saprà di stare a parlare con un uomo che non tiene alla vita o al lusso e che gli sta dicendo una verità disinteressata. Nel 38° giorno dello sciopero della fame, credevo ormai di essere spacciato. Morto. Ho considerato gli anni che sono seguiti come una seconda vita che dovrei essere capace di abbandonare. Sono già vissuto e morto e sono pronto ad andare. Non riesco a passare quella seconda vita qui nel bel vivere dell’America, mentre tutta la nostra gente sta soffrendo. Devo tornare a casa.”
Aveva delle speranze.
“Forse Marcos mi ascolterà. Non vuole certo apparire nella storia come un uomo che ha usurpato le liberà dalla nostra gente dando loro in cambio soltanto sofferenza. Sto facendo una scommessa che ci sia del buono in lui, nel suo profondo, suo malgrado, e gli devo parlare.
“Hai mai pensato al ricordo?”
“Devo prendere questa occasione. Credo che ci saranno cose buone per la nostra gente se mi ascolta. Cosa ho da perdere? La mia libertà? Se la prendano. Farò di tutto. Sarò il suo servo ma il mio prezzo è la libertà per la nostra gente.”
Gli ricordai che la libertà non era l’unica cosa che poteva rimetterci.
“Sono morto, te l’ho detto. Questa è una seconda vita che posso perdere. D’altra parte, se mi uccidono, faranno di me un eroe. Cosa ne sarebbe stato di Rizal se gli spagnoli non lo avessero riportato indietro e ucciso? Un altro esule come me fino alla fine della sua vita. Fino alla fine della mia vita. Ma se fanno quell’errore ….”
“Preferirei avere un amico vivo piuttosto che un eroe morto” dissi, poi mi chiesi perché discutevo con un uomo alla ricerca determinata del suo destino qualunque esso potesse essere.
Parlò dell’incontro che ebbe con la Signora Marcos, delle sue minacce per cui c’erano persone, fedeli a loro, che non avrebbero però potuto controllare e che avrebbero potuto ucciderlo. Gli era stato offerto aiuto economico se avesse deciso di non tornare a casa. Non disse nulla per educazione. Per quanto riguarda le persone fidate ….
“Che così sia” disse Ninoy.
“Cosa gli dirai a Marcos se riesci a incontrarlo?”
“Gli proporrò un governo ponte composto di uomini indipendenti e rispettabili per tenere delle elezioni libere ed oneste e restaurare finalmente la democrazia.”
“Credi che sarà d’accordo? Sai cosa vuol dire ?”
“Sì, prima deve abbandonare. Dimettersi. E’ stato così tanti anni al potere! Può dimettersi, ritirarsi dalla carica pubblica per ingraziarsi la gente che dimenticherà le sofferenze patite per la gioia di essere ritornati di nuovo liberi. Siamo un popolo che perdona. Che uscita di scena graziosa che sarebbe. Se ne andrebbe con gli onori.”
Quale processo di identificazione smosse milioni di filippini che seguirono la bara di Ninoy fino alla sua semplice tomba? Centinaia di migliaia costeggiarono la lunga strada verso Tarlac quando il feretro col corpo fu portato alla sua città natale prima del funerale a Manila. Al passaggio del corteo davanti alla base aerea americana di Clark, i piloti dei caccia resero il loro omaggio mandando i motori su di giri.
Questo massiccio riversarsi di persone e di emozioni aveva molto a che fare con quello che era accaduto ai filippini ancora una volta, impossibilità per una nazione di credere alla versione ufficiale dell’omicidio.
Si disse che subito dopo l’imposizione della legge marziale, un alto esponente americano avesse descritto la gente filippina come composta di 40 milioni di codardi più un figlio di puttana. Altrimenti si sarebbero sollevati di fronte a colui che distruggeva le loro libertà, pensò l’americano. Tuttavia, sei milioni di ebrei si diressero come pecorelle allo sterminio, fermandosi solo per litigare su qualche briciola di pane che avrebbe potuto tenerli in vita un giorno di più. I Nicaraguensi ingoiarono per quarant’anni l’umiliazione e le ruberie dei Somoza prima di mettere fine al loro regno. Gli ungheresi dopo un primo momento breve di rivolta orgogliosa hanno barattato la loro speranza di libertà per qualche pezzo di carta igienica in più nella vetrina sovietica di una società consumistica.
I filippini si sollevarono contro il governo spagnolo molte volte durante i 350 anni di dominio finché la Rivoluzione non mise in un angolo gli ultimi Spagnoli a Manila. Poi lottarono contro gli Americani che d’improvviso avevano loro rubato quella libertà che sembrava a loro portata. Morì il 10% della popolazione filippina dell’epoca. Quando i Giapponesi scacciarono gli Americani, i Filippini lottarono contro i Giapponesi.
Poi venne la legge marziale, di certo con l’appoggio americano se non con la loro approvazione, dopo l’evento. Prima, la sottomissione (codardia?) rassegnazione. (Non i comunisti di certo). Quasi undici anni dopo, il 21 agosto del 1983 il corpo di Ninoy giaceva sanguinante sulla pista.
I Filippini ritornano ad essere quello che sempre sono stati. E ci volle meno di quegli undici anni perché una nazione di codardi ritornasse ad essere quelli che ora sono.
Ritornò a casa con queste parole:
“Secondo Gandhi, il sacrificio consenziente di un innocente è la risposta più potente alla tirannia insolente che è stata ancora concepita da Dio e dall’uomo”
Prima di salire sull’aereo che da Taipei lo portava a Manila, disse al personale di una televisione al suo seguito che lo stavano accompagnando in quel giorno fatale:
“Devi essere pronto con la tua telecamera mobile poiché l’azione sarà molto veloce. Nel giro di tre quattro minuti potrebbe essere tutto finito e non mi sarà più possibile parlare con te. Ora sto prendendo qualche precauzione. Ho il mio giubbotto antiproiettile, ma se mi colpiscono al capo non c’è nulla che possa fare.”
Poi diede il suo favorito orologio d’oro a suo cognato.
“Credo che è già una vittoria se soltanto atterriamo” disse mentre l’aereo giungeva all’avvicinamento finale. E fu una vittoria, se mai la morte può essere una vittoria.
Era ritornato a casa da i Filippini che potevano gioire di nuovo dei privilegi economici e delle cariche politiche che la morte della libertà filippina aveva procurato loro. Ad un popolo deboli e sottomessi all’autorità qualunque essa sia. L’arresto di migliaia di loro connazionali lasciati nei carceri per mesi, anni senza accusa o processo non era riuscito a smuoverli. Era stata ignorata la tortura inflitta a così tante persone.
“Nessuno, nessuno è stato torturato” diceva Marcos. Ma Amnesty International denunciava lo stato di terrore che regnava nelle prigioni dove gli interrogatori erano segnati dall’uso di “pugni, calci, colpi di karate, colpi col calcio dei fucili, mazze di legno e bottiglie grandi. … lo sbattere delle teste contro i muri o mobili, il bruciare di peli pubici e di genitali con fiamme di accendino, il percuotere le piante dei piedi, la sospensione per aria.” Quest’ultima tortura consisteva nel tenere il corpo rigidamente sospeso, con la testa poggiata su un letto e i piedi su un altro, mentre il corpo era colpito o preso a calci finché non cadeva per debolezza o esaurimento.
“Quando cominciamo a sentire il dolore di quelli che sono stati resi vittime dalla tirannia” diceva Ninoy “è solo allora che ci possiamo liberare … Il sentimento proprio in questo momento è ..Fred è stato torturato, grazie a dio è successo a Fred e non a me. Questo è il risvolto tragico. La società è atomizzata. Finché la nazione filippina non riesce a percepire la perdita di una singola vita come se fosse la propria, non riusciremo mai a liberarci.”