Due giorni prima dell’arrivo del tifone Yolanda, per le strade di Tacloban giravano rappresentanti del municipio con megafoni invitando i cittadini ad andare verso luoghi elevati o a rifugiarsi nei centri di evacuazione.
Avvisi furono fatti per radio e per televisione. Alcuni hanno lasciato la città, altri no.
I cittadini hanno imparato a proteggersi dai venti forti, dalle alluvioni e dalle frane che periodicamente vengono con i tifoni che colpiscono questa nazione tropicale. Ma nessuno era virtualmente preparato per quel muro di acqua di sei metri che Yolanda ha alzato a causa della tempesta e che era diretto verso di loro.
“Si pensava dovesse essere sufficiente” ha detto Linda Maie che è rimasta nella sua casa di una stanza oltre mezzo chilometro nell’entroterra. Aveva sentito gli avvisi ma dice che “i suoi vicini di Tacloban non hanno vissuto mai un alluvione in tutti i miei 61 anni”.
La famiglia aveva messo da parte alimenti in scatola, acqua e candele, avevano coperto la televisione ed i computer con buste di plastica.. Ma quando la figlia di 16 anni, Alexa Wung, si sveglia la mattina alle 5 al rumore dei venti ululanti e alla pioggia forte, era chiaro che Haiyan non era una tempesta tropicale.
La casa tremava, i cardini delle finestre e le porte in legno sbattevano. Dando uno sguardo dalla finestra Alexa ha visto le porte e le finestre volare ed abbattersi. Il suo vicinato si stava sbriciolando.
L’acqua cominciava ad infiltrarsi attraverso la porta principale mentre Alexa si aggrappava a sua madre e suo fratello in questa piccolissima casa. Poi è giunto come un’esplosione che ha stracciato metà della porta allagando presto la stanza con l’acqua fino alle ginocchia. Solo pochi minuti e l’acqua era salita al petto.
La famiglia era ormai posta sul tavolo ad osservare inorridita. Il fratello Victor Vincent di Alexa diede uno sguardo al soffitto mentre quello spazio prezioso di aria si faceva sempre più piccolo.
Pensarono di scappare ma Linda non sapeva nuotare. Alexa diede un’occhiata al suo telefonino ed erano le 8,30. L’icona del suo fornitore di servizio era rimpiazzata dal segnale di stop. “Capii che anche se gridavamo aiuto nessuno al mondo avrebbe potuto sentirci. Eravamo tagliati fuori da tutto” dice Alexa. E l’acqua non cessava di salire.
Ci è voluto più di un giorno perché il modo esterno sapesse cosa era accaduto. Haiyan è stato tra i più potenti tifoni della storia registrata con venti stimati al contatto del tifone con la terra di circa 195 chilometri l’ora.
Ma le prime notizie successive suggerivano che si era mosso così velocemente per le isole che il paese era sfuggito ad una catastrofe anche peggiore. La realtà era che Tacloban e le altre comunità così profondamente colpite erano state tagliate fuori, l’elettricità e i servizi dei telefonini buttati giù.
Le paure sia a Tacloban che in tutto il mondo erano centrate più sul vento che sull’acqua, ed ecco perché molte delle 800 mila persone che erano state evacuate si sono trovate in costruzioni in cemento apparentemente resistenti che non avrebbero potuti proteggerli quando il livello del mare sollevato dal tifone è corso dentro la città.
“Tutti sapevano che giungeva una grande tempesta” dice Mark Burke, un americano di Washington che vive a Tacloban con i suoi tre figli e lavora come pilota civile a contratto di sostegno alle forze navali americane nella regione. “Ma non immaginavo che sarebbe andata a finire così male.. nessuno lo immaginava cosa sarebbe accaduto”.
L’acqua si è sollevata così tanto che alcuni residenti hanno bucato i loro tetti a mani nude per sfuggire. Burke ed i suoi piccoli si nascondevano in una stanza da letto finché un muro di fango ha attraversato la porta. Il letto galleggiava. “Poi siamo saliti sul piano galleggiando per tutto il corridoio. L’acqua continuava a salire e alla fine siamo saliti sull’attico dove siamo rimasti per un giorno e mezzo.”
In un’altra zona di Tacloban, Eflide Bacsal era in piedi nella cucina della casa di famiglia quando il muro di acqua ha colpito come una furia. “E’ stata come una bomba” ha detto la sorella Gennette, Sembrava come un terremoto.”
L’onda ha rotto la finestra e ha tolto l’equilibrio a Eflide risucchiandola dentro il turbinio dell’acqua. Muovendo freneticamente le braccia provava a trovare qualcosa a cui aggrapparsi. Le dita si chiusero attorno alla filo elettrico del frigo tenendosi così stretta e provando a tirarsi verso la superficie, ma l’acqua la spingeva ancora più giù.
Non ce la faceva a respirare, a pensare, a vedere. In preda al panico cominciò ad ingoiare acqua. Tutto si faceva nero. Si sentì morire e si arrese. Poi una mano comparve, suo padre che afferrò il suo vestito e la tirò verso la superficie. Lui la portò al secondo piano della casa dove attesero insieme alle sorelle e la madre che l’ondata si abbassasse.
Altre famiglie sono state meno fortunate. I parenti compreso Eflide e il fratello di Gennette Gonathan di 38 anni, si erano rifugiati nella chiesa, ma fuggirono quando giunse l’acqua. Mentre correvano per le vicine boscaglie un cugino fu decapitato da un pezzo di metallo che era stato lanciato per l’aria.
Parenti giovani e vecchi che non sapevano nuotare furono intrappolati dall’acqua che saliva, mala famiglia ha detto che Jonathan ne ha salvati tanti. Anche lui è stato ucciso dalle macerie: la tempesta ha lanciato per l’aria vari chiodi ed un pezzo di metallo alla sua gola.
Mentre Alexa e la famiglia se ne stavano sul tavolo da pranzo contemplavano la propria morte. L’acqua aveva raggiunto il petto di Alexa e il mento della madre.
“Dove andremo? Dove possiamo aggrapparci?” gridava Alexa. Erano ancora stupefatti dall’alluvione. Nessun tifone può essere causa di tutto questo, pensò. Poi la madre ebbe l’acqua alle labbra. Salata. Venne loro in mente che fosse acqua di mare.
Un pesce aleggiava per la spalla di Alexa e indietreggiò per il panico. La famiglia era ormai giunta ai propri limiti e per fortuna anche la tempesta. L’acqua smise di salire e cominciò lentamente a recedere. Quando Alexa potè camminare fuori era alle ginocchia.
Il vicinato fatto di barbieri e ristoranti, case e strade piene di Jeepney era svanito. C’era solo un mare grande di macerie: pezzi di legno pieni di chiodi, pezzi di bagno distrutti, vetro, pezzi di cemento, alberi sradicati, trasformatori elettrici capovolti.
I sopravvissuti girovagavano, confusi e storditi, coperti di fango e sporcizia. Molti erano a piedi nudi con tagli profondi ai piedi, ricoperti di ferite. Alcuni coprivano le ferite con un panno o pannolini. “Era irriconoscibile Tacloban” dice Alexa “ come se non fosse mai esistita.”
C’erano altre cose in questo panorama appiattito: cadaveri. E cinque giorni dopo che Haiyan ha abbattuto Tacloban molti sono ancora lì. Tanti corpi giacciono al ciglio della strada perché le autorità li raccolgano, coperti con qualunque cosa la gente riesce a trovare, pezzi di lamiera di ferro dei tetti, tavole in legno, scrivanie rotte, cartone.
Due corpi avvolti in un’incerata bianca giacciono ad un pensilina di bus. Un altro seduto sul terreno sotto. La gente che avvolge i propri bagagli e trasporta cose cammina e si copre la bocca per proteggersi dalla puzza mortale. Un camion arancione dei rifiuti si aggira per la città a raccoglierli. I lavoratori dell’emergenza ne scaricano a decine in una costruzione che un tempo vendeva ricordini. Ci sono in tutto 170 cadaveri allineati, l’uno di fianco all’altro, dentro sacchi neri
I bulldozer hanno ripulito dalle macerie la maggioranza delle strade, ma i marciapiedi sono pieni di ogni cosa immaginabile: altoparlanti rotti, macchine da scrivere, fili, alberi di natale di plastica.
Non c’è stata nessuna grande distribuzione di cibo per la maggior parte delle strade. L’ospedale cittadino principale è stato sventrato, le medicine stanno finendo. Si vede la polizia cacciare chi rovista nei rifiuti per le strade.
Le organizzazioni umanitarie devono ancora arrivare. Senza tende la gente dorme nelle case distrutte. Una famiglia ha trovato da dormire all’ombra di un gigantesco albero sradicato e cucina sotto un pezzo di lamiera per il tetto tenuto giù con mezzo di fortuna.
Ed alcune persone sono ancora più lontane da ogni aiuto. Martedì elicotteri militari hanno sorvolato per 15 minuti da Tacloban verso la distruzione di città chiamata Tanawan, oltre il lago dove galleggiano ancora cadaveri oltre il ponte che era caduto.
Tra le rovine abitanti disperati agitano le braccia, alcuni hanno scritto messaggi disperati, anche col gesso, tra le rovine: Aiuto, alimenti, acqua. Un grido di aiuto era fatto con abiti bianchi.
Oggi gli aerei cargo americani e filippini si muovono costantemente all’aeroporto di Tacloban. Ogni aereo può portare appena 150 persone ed ogni volo è una delusione a centinaia rimasti sulla pista. Gennette e Eflide ce l’hanno fatta a raggiungere Cebu. Burke e i suoi piccoli a Manila.
Alexa e la madre hanno camminato per due ore verso l’aeroporto distrutto nella speranza di andarsene. Victor ha chiesto loro di andarsene così potrà fare da guardia alla casa piuttosto che trovar loro da mangiare. Erano in prima fila martedì, ma dopo l’atterraggio di un C130 la folla ha provato a salire sull’aereo. La spinta della gente era così intensa che una ragazzina di sette anni non ce l’ha fatta. Alexa e Linda non ce la facevano e si sono allontanate.
Sedevano su un cordolo sotto un ombrello, e Alexa era in lacrime. La città distrutta era alle loro spalle, un cimitero apocalittico segnato da alberi e rovine sfigurate. Dicono che il governo ed il mondo non ha fatto nulla per aiutarli. Il loro piano è di andarsene da Tacloban a Manila col bus dove ci sono parenti. Alexa ha detto che ritornerà alla fine.
“Noi filippini abbiamo un detto: la malerba non muore facilmente. Quando sarà tutto finito e ci sarà elettricità, quando sarà un posto vivibile tornerò”
Todd Pitman, AP