INDONESIA: grida di aiuto per la indipendenza di Papua

La settimana scorsa migliaia di abitanti di Papua, la provincia orientale Irian Jaya come definita dalla repubblica indonesiana, si sono recati per essere presenti ad un congresso per celebrare i 50 anni dalla proclamazione dell’ indipendenza di Papua

Voleva essere un congresso pacifico, ma l’ultimo giorno, prendendo di sorpresa le forze di sicurezza poste all’esterno, vari capi papuani hanno letto una dichiarazione di indipendenza di Papua occidentale dall’Indonesia, innalzando la loro bandiera vietata e installato un governo simbolico.

indipendenza di papua

Nel mezzo della dichiarazione la polizia interrompe in massa il congresso per interrompere l’incontro incontrando la forte resistenza dei presenti. Mentre deve trovare ancora conferma il numero dei morti, si parla di almeno 6 morti. I corpi sono stati scoperti in varie parti dell’isola, alcuni dietro le abitazioni della polizia, altre nelle fosse.

Centinaia i feriti e molti gli scomparsi. A chi denunciava la mano pesante della polizia, il capo della polizia di Papua ha detto: «La ragione per cui siamo entrati con la forza è stata che il congresso ha violato i termini del permesso che era solo per parlare dei diritti fondamentali degli abitanti di Papua.»

La denuncia dei gruppi internazionali per la risposta della polizia è stata veloce e molto critica. Intervistato telefonicamente, un attivista Papuano ha riferito alla rivista The Diplomat: «Stavamo discutendo dei nostri diritti in un modo non violento, non c’era alcuna ragione per fare irruzione in quel modo, è stato terrificante… Vogliamo solo la nostra terra.»

Il riferimento qui è l’inclusione di Papua occidentale nella repubblica indonesiana che fu proclamata nel 1949 mentre Papua rimase fino al 1961 colonia olandese. Molto desiderosa di voler mettere le mani su un ‘isola ricca di risorse, il primo presidente indonesiano Sukarno fece vari tentativi attraverso l’ONU di acquisire l’isola nella repubblica indonesiana, senza però riuscirci. Quindi inviò decine di migliaia di soldati per prendere la metà dell’Isola di Nuova Guinea con la forza.

L’amministrazione Kennedy, volendo evitare un confronto e volendo evitare che un’altra nazione asiatica facesse la scelta del comunismo, mise su l’Accordo di New York tra Indonesia e Olanda nel 1962 col quale si trasferiva il controllo della colonia all’Indonesia a condizione che si impegnasse ad indire un referendum sull’ indipendenza di Papua da chiamarsi «Atto di libera scelta».

Nel 1969 su una popolazione di più di un milione di papuani, furono manualmente scelti 1025 ‘rappresentanti’ che unanimemente scelsero che Papua Occidentale rimanesse dentro la sovranità indonesiana. Tra denunce di minacce ai votanti, un rappresentante del Commonweath affermò che «il processo di consultazione non ha permesso una scelta genuinamente libera», mentre l’ambasciatore americano in Indonesia affermò che «il 95% degli indigeni papuani voleva avere la libertà»

Per tutta la provincia la Votazione fu percepita come una burla, dando luogo a proteste e spingendo parti di popolazioni a prendere le armi. L’esercito indonesiano lanciò una vasta operazione per annullare il dissenso spingendo migliaia a fuggir dalla nazione e i membri della resistenza a dar vita a gruppi armati nella giungla, dove rimangono ancora oggi a combattere per l’indipendenza di Papua.

I giornalisti esteri ottengono di rado il permesso di visitare Papua Occidentale, e quelli fortunati hanno forte limitazioni di movimento. Nell’arrivare a Jayapura, la più grande città dell’isola, sono condotto con una barca lungo le coste. Sto andando ad incontrare i ribelli ma per evitare di essere intercettato facciamo un lungo viaggio lungo la costa intatta dell’isola.

La notte tardi notiamo tre lanterne che luccicano nel mare. «E’ il porto dei ribelli» mi dice un soldato nella barca. Siamo accolti da un gruppo di uomini con i pantaloncini e canottiera militari, seduti a masticare il betel aggiungendo altro colore alle loro bocche già colorate di rosso e ridendo tra loro.

Il più anziano con un perizoma scende giù verso il fiume oltre due capanne di bambù. Sotto un cielo stellato, i pescatori usano la lanterna e la lancia per prepararsi la cena. Qualche tempo dopo, i soldati soddisfatti si siedono in cerchio sul pavimento della capanna raccontando le storie tradizionali. Per tutta la notte si sente il suono di scoppi intermittenti di risate.

Il giorno dopo ci svegliammo all’alba. Con un faticoso cammino attraverso gli acquitrini della giungla e montagne ripede, raggiungiamo una delle roccaforti dei ribelli. Tutti i soldati sono venuti a darci il benvenuto. Solo pochi indossano delle uniformi, gli altri indossano i loro abiti tradizionali, criniere di piume e argilla bianca spalmata sulle facce.

Attorno al collo molti hanno collane di unghia di scimmia; del fogliame è avvolto in braccioli di bambù come simbolo di protezione. Tutti salutano ed è sparato un colpo di fucile.

Sono i membri dell’Armata di Liberazione Nazionale di Papua Occidentale (TPN), il braccio armato del Movimento per Papua libera (OPM). Sin da quando l’Indonesia ha preso il controllo della provincia, l’armata tribale arrangiata alla meglio ha sempre tenuto un conflitto di bassa intensità con le forze armate «Straniere».

Il TPN, armato molto male, è in forte svantaggio di fronte al suo nemico ben finanziato. Pochi hanno dei vecchi fucili, mentre il resto è equipaggiato con le loro armi tradizionali, lance e frecce.

«Non abbiamo mai avuto la possibilità vera di votare per il futuro della nostra nazione. Invece ci fu rubata.» dice Richard Youweni con uno sguardo che si addice al più vecchio comandante in servizio nell’armata dei ribelli. «Lotteremo fino a che non riavremo la nostra terra.»

L’armata dei ribelli, secondo Youweni, insieme ai politici in esilio, hanno richiesto ripetutamente un negoziato con Giakarta insieme ad un terzo paese mediatore. «Lo abbiamo chiesto tante volte. Loro non sono assolutamente d’accordo che un’altra nazione faccia da mediazione. Non vogliono rendere il problema un affare internazionale, non vogliono che la comunità internazionale veda quello che succede qui.»

Nonostante abbiano di fronte un esercito ben equipaggiato pochi sembrano indietreggiare. «Forse non abbiamo molto equipaggiamento ma la nostra gente vuole essere libera e così lotteremo fino alla fine.» dice Freddie Laboi che si è dato il titolo di comandante della costa.

«L’Indonesia non ha cura della nostra gente, vogliono solo le nostre risorse»

Un problema grave e fonte del conflitto negli anni è stata la miniera di Grasberg, la più grande miniera di Rame ed oro al mondo, di proprietà del gigante americano Freeport che genera quattro miliardi di dollari di entrate dei 6,5 totali all’anno.

La Miniera ha attratto le critiche dei gruppi ambientalisti di tutto il mondo, e dai ministeri dell’ambiente indonesiano, per i gravi danni causati dai suoi depositi di rifiuti. Il governo norvegese ha persino disinvestito 1 miliardo di azioni in Rio Tinto, facendo riferimento le preoccupazioni sul danno ambientale della miniera.

Altre preoccupazioni avvolgono questa compagnia mineraria, Freport McMoRan Rio Tinto, che paga secondo i giornali milioni di dollari all’esercito indonesiano ogni anno per proteggere la miniera, forze che sono sotto accusa per violazioni dei diritti umani contro gli abitanti dei villaggi papuani.

Nella settimana precedente al congresso si sono tenute varie proteste vicino alla miniera di Grasberg. Mentre erano proteste isolate gli incidenti hanno la stessa radice e dolore.

«Siamo sfruttati dall’Indonesia e da queste compagnie internazionali» dice uno dei capi della protesta. La loro richiesta principale è un aumento di paga che dà al momento ad ogni lavoratore 1.50$ all’ora, mentre la compagnia è il più grande contribuente del governo indonesiano e consegue profitti per 30 milioni di dollari al giorno.

Mentre il governo indonesiano e le compagnie internazionali fanno profitti dalle risorse naturali dell’isola, gli abitanti papuani vivono nella più ripugnate povertà.

Secondo le Nazioni Unite il 35% degli abitanti vive sotto il livello di povertà al contrario del resto dell’arcipelago dove la percentuale scende al 13 %. Anche nelle scuole secondarie si assiste a questo dualismo: il 60% dei ragazzi e ragazze contro il 91% dell’intero arcipelago. Con l’arrivo di altre compagnie straniere che portano altri non papuani ci si aspetta che la situazione non migliori.

Secondo Jago Wadley del Environmental Investigation Agency, se il tasso di estrazione delle risorse continua inalterato, Papua «perderà milioni di ettari di foreste e sarà rubata di risorse di valore senza i benefici delle industrie a valore aggiunto per creare localmente posti di lavoro e ricchezza.»

Invece a beneficiarne saranno Giacarta e poche compagnie internazionali e l’elite di Papua. Wadley aggiunge che il crescente interesse nelle risorse di Papua causerà «un influsso di milioni di emigranti dalle altre parti dell’Indonesia, cosa che farà degli indigeni di Papua una piccola minoranza nella propria terra.»

Alcuni commentatori, secondo lui, vedono il rapido sviluppo come «politicamente ideologico nei suoi scopi» ed un efficace diversivo per le richieste di indipendenza».

Molti militanti papuani sono coscienti dei rischi di un governo continuato indonesiano sull’isola. Quando uscii dalla giungla, incontrai quattro leader studenteschi in clandestinità nella periferia di Jayapura. Avevano organizzato il giorno prima una protesta per porre fine alla «Autonomia speciale» di Giacarta.

Il piano era stato introdotto nel 2001 per il trasferimento dei poteri ai papuani, ma erano in pochi a pensare che potesse funzionare. I più pensavano che fosse sempre Giacarta insieme a pochi papuani al comando.

Secondo il portavoce del governo indonesiano Herry Sudradjat, i separatisti hanno sempre gonfiato il fallimento dell’autonomia per ottenere punti a proprio vantaggio. «Il governo vede lo schema di autonomia come una soluzione vantaggiosa per tutti, capace di aiutare i nostri fratelli e sorelle di Papua a governare la propria patria e gestire i propri affari.»

Sono in pochi tra gli abitanti di Papua Occidentale a considerare questa Autonomia Speciale come vantaggiosa per tutti, piuttosto a considerarla come un modo per l’Indonesia di mantenere il controllo di Papua Occidentale.

«Abbiamo bisogno di reclamare la nostra terra prima che l’Indonesia la distrugga e con essa la nostra gente. Non è facile per noi mantenere il confronto con loro» dice Sylebus Bobby, un uomo della sicurezza. Sa per esperienza. Da giovane studente di teologia guidò una protesta universitaria. Di fronte a migliaia di studenti e ad uno schieramento di polizia armato fino ai denti alzò la bandiera della Stella del Mattino» che era diventata il simbolo del movimento di indipendenza di Papua. Fu subito preso e buttato su un camion militare e portato in carcere. Accusato secondo una legge draconiana di tradimento, residuo del passato coloniale, dice di aver incontrato decine di altri prigionieri politici passando cinque anni in carcere.

Nel passato poco ha fatto la comunità internazionale per sostenere la lotta di indipendenza di Papua nonostante le richieste e gli sforzi incessanti di internazionalizzare il problema. Mentre la comunità internazionale aiutò infine Timor Est, fu fatto poco per Papua.

Secondo i militanti molto lo si deve alla miniera di Grasberg. Sono in molti a chiedersi quale sarà il destino dei militanti del movimento, della gente e della loro terra, se continueranno a sfidare il governo indonesiano che non sembra voler fare marcia indietro.

Nonostante le morti e la violenza scoppiata nelle settimane passate. il ministro dell’interno Djoko Suyanto ha giustificato la repressione dicendo: «la polizia fece l’incursione poiché era stato già considerato un colpo di stato. Hanno dichiarato uno stato dentro uno stato e non riconoscevano il Presidente dell’Indonesia.»

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