La mia ricerca personale sulla spiritualità nelle tradizioni antiche, iniziata più di trent’anni fa, mi ha dato l’opportunità di chiarire a me stesso il concetto di illuminazione, proprio delle filosofie orientali e oggi in uso anche nel linguaggio comune.

Anche grazie ai viaggi, che insieme agli studi mi hanno consentito di immergermi nella cultura asiatica, ne ho ricavato una sintesi che dovrebbe essere evidente già nell’accezione del termine, invece in occidente la sua definizione si è diluita assumendo un carattere vago e indefinito, oppure è stata resa inaccessibile ai più delle definizioni accademiche.
Tutto ciò contribuisce a generare confusione attorno un concetto cardine che dovrebbe essere di immediata comprensione, per afferrarne il vero significato va quindi depurato del misticismo inflazionato e banale da cui oggi è connotato. Per questo ho deciso di condividere, cercando di spiegare in modo semplice, le conclusioni alle quali sono arrivato, nella speranza che possano essere utili a chi si trova lungo un cammino simile.
In oriente la figura dell’illuminato identifica un individuo appartenente a una delle tante tradizioni del buddhismo, dell’induismo o del giainismo, che si muove e agisce e nella vita di tutti i giorni più o meno come da noi farebbe un santo, termine questo il cui significato non richiede troppe spiegazioni per coglierne il senso.
Alcuni testi mistici della tradizione buddista Vajrayana, tradotto come veicolo del diamante, si collocano nel corpus della letteratura esoterica tantrica indo-tibetana e coniugano la cultura sciamanica dell’areale himalayano con il buddhismo dell’india medievale. In quest’epoca un gruppo di asceti girovaghi noti con il nome di Mahasiddha ( grandi perfetti ) appartenenti a ogni genere e casta sociale diedero inizio a una serie di scuole di pensiero alquanto informali che si articolava sulla trasmissione del sapere diretta in un rapporto quasi esclusivo tra maestro e allievo. Le loro personalità pittoresche, insieme alle gesta leggendarie e gli insegnamenti ermetici spesso esposti in forma poetica, li rendono difficilmente inquadrabili in un sistema organizzato e la loro memoria ci è giunta attraverso i racconti e le cronache dei loro più disciplinati discepoli. Questi hanno successivamente istituito monasteri e ordini a tutt’oggi attivi al fine di preservare e tramandarne le dottrine.
La scuola Vajrayana si propone quindi come la più mistica tra le molte all’interno del buddhismo tibetano. Gli insegnamenti raccolti nei testi, forse preesistenti di millenni, descrivono nel dettaglio il processo meditativo, meglio definito dal termine contemplazione, come mezzo privilegiato per giungere alla conoscenza della natura ultima della mente e di conseguenza dell’essere. Questa mente non corrisponde al pensiero discorsivo, che ne è una funzione, ma indica piuttosto una condizione basale, o primordiale, della coscienza alla quale si approda progressivamente durante la meditazione e nella quale non vi è più distinzione tra soggetto e oggetto. Questa presenza della mente a sé stessa si traduce in una consapevolezza della propria sostanza e origine. Una volta rivelata va mantenuta costante sullo sfondo dell’esperienza quotidiana per mezzo di esercizi pratici e non solo in forma di potenziale latente.
Come dicevo il termine corretto per definire questo stato della mente è contemplazione in quanto meditazione è più adatto a indicare un processo in divenire articolato in fasi piuttosto che il fine. La contemplazione non va dunque intesa come assenza di pensiero, come si tende a credere, anzi, esistono tecniche di meditazione per verificare di persona quanto sia estenuante e insostenibile tentare di arrestare il flusso dei pensieri se non per breve tempo. Invece è opportuno usarlo a proprio vantaggio come strumento di osservazione per trovare un equilibrio che servirà a proiettarsi nella dimensione contemplativa. Questo a riprova del fatto che il pensiero antico non è affatto ingenuo e privo di concretezza come si potrebbe pensare oggi.
L’idea che emerge chiaramente negli insegnamenti delle varie scuole afferma esplicitamente che lo stato di illuminazione coincide con il momento in cui la mente realizza che tutta la realtà non è altro che un suo prodotto, o proiezione, quindi priva di una sostanza propria, mentre l’assenza di questa consapevolezza è propria della condizione comune. Quando la mente osserva gli oggetti come un gioco inarrestabile e transitorio, sempre mutevole, prodotto dalla sua irradiazione, non ne viene più condizionata e al contempo si riconosce quale principio immutabile e preesistente. Questo punto originario è un assioma centrale della filosofia buddista e viene definito col termine buddha, che significa risvegliato, illuminato, nel senso che è consapevole di sé.
Quello che ho descritto sopra corrisponde più o meno all’introduzione concettuale allo stato originario della mente. Questa introduzione viene data da un maestro appartenente ad un lignaggio riconosciuto e per avere valore deve aggiungersi a quella esperienziale che può essere comunicata solamente da chi l’ha ricevuta prima a sua volta. Un tempo queste pratiche di iniziazione erano tenute nella segretezza più assoluta e potevano essere trasmesse solo all’interno di cerchie ristrette, pena la scomunica o in alcuni casi la morte. Oggi queste conoscenze possono essere trovate, se pure con qualche difficoltà, in testi specializzati o in seminari tenuti in tutto il mondo. Sono quindi accessibili a chiunque ma comprensibili pienamente solo a mezzo di uno studio approfondito. Infatti i concetti, anche quando sono esposti in modo chiaro, si diramano in un dedalo di richiami e sinonimi che richiedono anni di esperienza per essere assimilati, questo anche per via della diversa simbologia propria del contesto culturale di appartenenza, impenetrabile all’occidentale.
Una volta ottenuta la consapevolezza della nostra natura autentica, che si identifica con l’essenza adamantina della mente quale origine e fondamento di tutte le cose, questa va consolidata a mezzo di una pratica costante protratta negli anni che viene dettagliatamente illustrata dalle varie scuole in molte varianti. Raggiunto questo stadio tutto diviene possibile, inclusa la capacità di produrre manifestazioni straordinarie che verrebbero definite come miracoli nella tradizione cristiana e ne possiedono di fatto tutte le caratteristiche: tra queste la chiaroveggenza, la capacità di guarire malattie fino a resuscitare i morti, la telepatia, l’ubiquità, la levitazione estatica, l’immunità al freddo e alla fame, solo per citarne alcune. Va detto che la funzione di tali atti è sempre volta all’utilità comune o a dimostrare agli increduli che la condizione del realizzato non è frutto di una suggestione personale ma un dato oggettivo in grado di influire e modificare la realtà condivisa.
Una volta acquisite le qualità del risvegliato, non vi è timore che queste possano essere usate a vantaggio personale o volte al male, come invece può accadere al magus. La scoperta della verità conduce al disinganno e porta alla luce un codice etico interiore che nelle religioni moderne è solo formale, mentre per chi lo scopre attraverso l’esperienza individuale è spontaneo, tradirlo equivarrebbe a tradire se stessi.
In psicologia questo pensiero equivale a riportare la mente alla fase di onnipotenza, un’età in cui il bambino non distingue tra sé e la madre e gli oggetti vengono considerati un’estensione del sé. E’ necessario chiarire subito che questa condizione infantile e l’illuminazione sono due cose diverse, nel senso che la seconda non è da considerare uno stato allucinatorio, che non sarebbe altro che un’ulteriore illusione costruita dentro all’illusione – principio questo contrario all’etica del risvegliato – bensì è da considerarsi una realtà concreta. Neppure è riconducibile a una forma morbosa di delirio che in occidente verrebbe rapidamente bollata come psicosi. Non si deve cadere nell’errore di credere che gli antichi si ingannassero riguardo un aspetto così importante e non sapessero distinguere tra un folle e un realizzato.
L’adesione della mente alla sua condizione basale, come consapevolezza presente a sé stessa della propria origine, viene chiamata Rigpa, mentre la sua assenza viene definita Arigpa, o ignoranza fondamentale. Quest’ultima non è da interpretare come un fatto moralmente riprovevole, ma piuttosto come l’assenza di consapevolezza che ha come conseguenza la divisione tra sé e gli oggetti del mondo esterno e porta a una visione del mondo duale, o samsarica. Ovvero l’incapacità di vedere la realtà come la proiezione della propria mente.
Questa ignoranza congenita è la condizione comune nella quale ci troviamo imprigionati, da questa procede la convinzione incrollabile che la realtà esterna sia da noi distinta e indipendente. Una volta compreso questo, si pone la necessità urgente di spezzare questa illusione per emanciparsi dalla condizione miserevole in cui la mente si autoinganna venendo condizionata dal suo prodotto. Tutte le pratiche esposte nei testi esoterici, per quanto diverse e articolate, mirano a un unico scopo: il raggiungimento dello stato contemplativo nel quale è possibile riconoscere la realtà esterna come una proiezione karmica. Quando si ottiene questa consapevolezza e si è in grado di sostenerla stabilmente avviene la liberazione. Questa comprensione realizza il pieno potenziale della mente affrancandola dai limiti delle leggi naturali.
Come è noto in oriente la credenza che alla morte fisica faccia seguito la rinascita in un’altra forma di vita nella quale il principio vitale va ad abitare è comune a molte confessioni. La forma e la qualità di questa vita futura sono determinate dalle azioni compiute nelle vite precedenti, questo bagaglio che appesantisce o slancia l’individuo verso un destino più o meno fausto è chiamato karma.
Una volta liberato dalle catene dell’ignoranza innata, lo yogi, o praticante, non è più soggetto a tornare nei vari regni dell’esistenza ma si emancipa dal ciclo delle rinascite e dalla sofferenza che questo comporta. Egli può ora muoversi a piacere nei piani dell’esistenza per aiutare chi vi è ancora confinato. Si adopera instancabilmente a favore di tutti gli esseri dotati di coscienza per condurli al risveglio, virtù peculiare del Bodhisattva, figura che corrisponde ai nostri santi. Oppure sceglie di riposare nella dimensione contemplativa cosmica, la dharmatha.
Tra le pratiche segrete esistono vari tipi di yoga, termine che in sanscrito significa insegnamento. Per offrire qualche esempio tra i più comuni troviamo lo Yoga del bardo, conosciuto col nome improprio di libro tibetano dei morti, contenente le istruzioni per dirigere il principio cosciente del defunto nello stato intermedio che intercorre tra la morte fisica e la successiva rinascita. La finalità è quella di aiutarlo a ottenere la liberazione o una rinascita favorevole alla sua evoluzione spirituale. Simile ad alcune pratiche sciamaniche in uso tra gli indiani d’America lo Yoga del sogno istruisce su come rimanere lucidi durante i sogni. Il sogno per via della sua natura insostanziale e fluida è particolarmente simile alle visioni che si presentano nello stato intermedio descritto prima e rappresenta un’ottima opportunità per prepararsi. Altri tipi di yoga associano elaborate forme di visualizzazione a esercizi corporei coordinati con vari tipi di respirazione al fine di veicolare i flussi vitali che si muovono all’interno del corpo sottile, collocato secondo la tradizione yogica in corrispondenza del sistema nervoso e dei suoi gangli principali. L’attivazione di questi centri sottili permette al meditante di ottenere il risveglio e compiere atti magici.
In tutti i casi il punto fondamentale rimane il medesimo: da qualunque lato si cerchi l’accesso, questo conduce all’esperienza della visione dello stato naturale della mente. Questa, come spiegato prima, non deve essere una fantasia o un’allucinazione ma un qualcosa di cui resta una memoria indelebile e che, come affermano i testi, è al di là di ogni dubbio e servirà da guida per tutto quello che verrà in seguito.
Negli anni ho avuto modo di studiare diverse tradizioni, appartenenti ai più diversi contesti culturali e aree geografiche, e in tutte ho trovato traccia di questa esperienza fondamentale.
É quindi questo che va ricercato, il resto è contestualizzato culturalmente e può essere accessorio o divagazione dalla meta. Ho trovato riferimenti più o meno espliciti a questa esperienza nel taoismo, nell’induismo, nella filosofia greca, nel misticismo islamico e nella filosofia Greco-romana. La tradizione Cristiana ortodossa degli eremiti esicasti e quella copta dei padri del deserto ci offrono straordinarie similitudini con esempi di pratiche del tutto affini allo yoga.
Infine gli insegnamenti più segreti, che restano a tutt’oggi protetti all’interno di pochi monasteri, contengono le istruzioni per accedere direttamente alla natura fondamentale della mente, che viene descritta come luminosa, illimitata e fonte spontanea creatrice di tutti i fenomeni con i quali però non si identifica. Questa base originaria è vuota di forma e al tempo stesso intelligente, comune e sottostante alla coscienza individuale di tutti gli esseri senzienti ma da questi non riconosciuta perché oscurata dalle passioni. Queste sono da intendere come il frutto degli stati emotivi, le metafore più comuni che ci vengono offerte ci parlano di un astro oscurato dalle nubi o uno specchio velato dalla polvere.
Le emozioni spingono l’individuo prima a identificarsi con i loro contenuti e in un secondo tempo ad agire, creando attaccamento o repulsione nei confronti degli oggetti mentali. Da qui l’inganno che porta alla creazione di un sé illusorio separato dal mondo esterno. Grazie a una pratica costante, simile all’atarassia proposta dai filosofi greco-romani, l’osservatore impara a porre una distanza progressiva tra sé e i contenuti emotivi che lo spingono al giudizio e all’azione, karma nella tradizione classica indiana.
Sono proprio queste stesse azioni a gettare i semi che in seguito produrranno le conseguenze che mantengono l’individuo ingabbiato all’interno del ciclo delle rinascite, in una prospettiva quasi meccanicistica. Mitigando prima ed recidendo poi alla fonte le motivazioni che spingono ad agire per mezzo della pratica meditativa si impedisce agli effetti di manifestarsi, fornendoci così la chiave per uscire dal circolo.
La pratica meditativa produce dunque l’assenza di partecipazione agli stati emotivi, che vengono si sperimentati ma considerati transitori e privi di una sostanza propria. Tutto viene visto come vuoto e impermanente, in un’ottica orientata a un distacco che però non si risolve nel nichilismo o nell’aridità affettiva ma piuttosto a coltivare l’equilibrio del giudizio, in modo simile a come suggerisce la tradizione stoica, identificato in seguito dal cristianesimo con la virtù della temperanza. In aggiunta viene messo in risalto il valore fondante della compassione che equivale alla carità cristiana e va sviluppata incessantemente. In assenza di questa qualità ogni sforzo è vano e ogni conquista è incompleta. Questa sensibilità viene identificata come come il fiore e l’essenza della natura umana, ci permette di comprendere il dolore altrui ed è fonte di motivazione ad aiutare il prossimo.
Quali che possano essere stati i punti di contatto e le modalità di comunicazione tra mondi ed epoche così distanti è ancora argomento di indagine. Certo è che la società contemporanea, orientata a uniformare il comportamento umano all’efficienza della macchina, assiste al suo progressivo svuotamento di valori ma non è stata capace di trovare risposte soddisfacenti alle domande esistenziali fondamentali, considerandole obsolete o perfino imbarazzanti.
Perfino la filosofia e l’antropologia hanno smesso di interessarsi alla questione, preferendo dirigere i loro sforzi a un pragmatismo di sostegno alle scienze per risolvere problemi circoscritti e prettamente tecnici. Devono quindi bastare le risposte del passato in quanto non se ne sono trovate di migliori. Il problema non può comunque essere eluso perché sebbene la tecnologia evolva i bisogni e le aspirazioni spirituali dell’uomo restano i medesimi.
La rimozione del problema esistenziale relegato a una questione di secondaria importanza soffoca il grido dell’uomo che ha semplicemente bisogno di trovare un senso alla sua quotidianità, di essere valorizzato e riconosciuto dalla società e trovare una direzione per la sua vita, mentre invece viene divorato dall’interno da una ideologia nichilista mascherata da progresso, con tutti i problemi che ne derivano a livello psicologico.
Probabilmente è proprio questo il motivo che ha indotto il mondo occidentale a cercare sempre più nelle culture tradizionali ciò che nelle religioni della società post-industriale è ormai solo un guscio vuoto di significato. A un esame approfondito al di là dell’aspetto formale e rituale, le risposte alle questioni di fondo che troviamo nel passato sono le stesse perché le necessità e l’origine dell’uomo moderno sono anch’esse le stesse. Infatti come afferma Eraclito La natura è una e comune a tutti.
Stefano Scippa Palleni, VAATA.ORG