Benché l’Indonesia abbia istituito nel 2000 la prima corte per la difesa dei diritti umani, ancora oggi davanti ad essa non è stato portato neanche un solo caso, e le vittime di questi abusi stanno incontrando sempre maggiori difficoltà nel portare i responsabili davanti alla giustizia.
I dati dalla Commissione nazionale delle ONG, Kontras, stimano che oltre un milione di persone hanno subito violenze dei diritti umani dal 1965 fino al 1998 durante il regime del presidente Suharto. “Abbiamo una situazione insolita nel paese. Si hanno tutti questi casi di violazioni a nessuno è stato accusato mai nella corte.” dice Haris Azhar del Kontras. Su dodici anni di presenza di una corte dei diritti umani, solo dodici sono stati i casi esaminati senza alcuna reale condanna.
Durante il tumultuoso periodo del cambiamento verso la democrazia, furono in tanti gli studenti universitari che sfidavano il regime a scomparire.
Mugiyanto fu arrestato nel 1998. “Mi coprirono gli occhi e poi torturato ed interrogato per quattro giorni dalle forze speciali militari. Poi mi consegnarono alla polizia e mi tennero nella prigione locale per 3 mesi. Fui rilasciato al cambio del comando.” dice il ragazzo che presiede ora l’Associazione Indonesiana delle famiglie degli scomparsi (IKOHI).
Suharto si dimise a maggio del 1998 e fu sostituito dal vice presidente Habibie. Erano 23 gli studenti scomparsi e nove tra cui Mugiyanto tra quelli rilasciati. Sono ancora 13 gli studenti scomparsi tra i quali Ucok Siahan, all’epoca 22 anni i cui genitori ancora attendono.
Suo padre racconta: “Ci fece visita varie volte nel 1998 e ci diceva di accumulare alimenti e altro perché a Giacarta la situazione politica era fuori controllo. A maggio ci telefonò dicendoci di non uscire e se qualcosa di male accadeva dovevamo andare alla moschea.” Dopo di allora la famiglia non seppe più nulla di lui. “Siamo arrabbiati col governo” dice Paian, il padre del ragazzo. “Vogliamo solo sapere cosa è accaduto a nostro figlio. Se se ne è andato vogliamo trovare i suoi resti e disporli nella tomba per sempre. Siamo vecchi e vogliamo vivere in pace, ma fino a quando non sappiamo cosa gli è successo non riusciamo a farlo.”
Negli anni scorsi sono state denunciate varie violazioni dei diritti umani nella remota regione indonesiana di Papua, dove da molto tempo ribolle un conflitto separatista, in una regione ricca di risorse a oltre 3000 chilometri da Giacarta con un bassissimo indice di presenza umana. Penihas Lokbere della città di Jayapura, capitale della provincia, dice di essere una delle 105 persone arrestate nel 2000 dalla polizia nell’università di Abepura. Secondo un rapporto di Human Rights Now un gruppo non identificato attaccò in questo paese un posto di polizia uccidendo due poliziotti e una guardia di sicurezza.
“La polizia voleva la vendetta” dice Lokbere. “Vennero nel nostro dormitorio mentre dormivamo e ci arrestarono senza farci alcuna domanda.”. Insieme ai suoi amici fu tenuto in prigione per 3 giorni dove dice di essere stato torturato e bastonato con un pezzo di metallo. Finora nessuno è stato condannato.
Dal 1960 al 2012 secondo un rapporto congiunto tra ITCJ e Elsham si registrarono 750 viooazioni dei diritti umani contro gli abitanti della provincia con arresti arbitrari, torture, omicidi e detenzione. “Molte delle vittime non sono pronte a parlarne. La provincia è militarizzata ed hanno paura a dare informazioni per non essere terrorizzati dalla polizia o dai militari.”
La regione di Papua registra da decenni una tensione separatista in relazione all’applicazione di un accordo speciale di autonomia firmata nel 2001 a causa della mancanza di accesso alle risorse di oro, rame e legname con conseguente repressione delle manifestazioni politiche. Come sostiene Josef Roy Benedict di Amnesty International, le attuali violazioni dei diritti sono anche dovute alla cultura dell’impunità.
“I poliziotti vengono puniti solo per problemi di disciplina, spesso con processi a porte chiuse, mentre le violazioni dei militari dalle corti marziali che mancano di indipendenza ed imparzialità.”
Il Setara Institute di Giacarta segnalava 130 violazioni di diritti religiosi a livello nazionale da gennaio a giungo del 2012, la maggioranza dei quali accadeva a Giava Occidentale contro la minoranza religiosa musulmana degli Ahmadiyah che ha 500 mila aderenti in tutto l’arcipelago. Nel febbraio del 2011 un giovane Ahmadi faceva visita du un villaggio fuori Giacarta quando un gruppo fondamentalista musulmano che non riconosce gli Ahmadi come musulmani attaccò i seguaci Ahmadiyah nel villaggio. “La folla era di almeno mille persone e noi Ahmadi fummo sopraffatti. Corremmo ma fui catturato” dice il ragazzo “Mi trascinarono nelle risaie colpendomi al petto con un macete e con un bambù, dicendo che mi avrebbero tagliati i genitali.” L’attaccò si fermò solo quando il ragazzo disse di essere musulmano. “Credevano che fossi uno di loro, un sunnita”.
Tre amici del ragazzo furono uccisi nell’attacco e gli assalitori furono condannati da tre a sei mesi di prigione, una pena non commisurata al crimine.
Il direttore generale dei diritti umani al ministero della giustizia, Harkristuti Harkrisnowo, riconobbe la sentenza come troppo blanda suggerendo che bisognava fare di più per proteggere le minoranze. “Sul terreno ci sono gruppi fondamentalisti che in maniera chiara minacciano le minoranze e la polizia trova difficoltà a contenerli, ma loro devono provare a contenere questa violenza.” dice la donna. Nel 2008 il governo emanava un decreto ministeriale che vietava agli Ahmadi di diffondere il loro credo per il fatto che “deviavano” dall’Islam nei propri insegnamenti. Per gli estremisti il decreto giustificava i loro attacchi contro gli Ahmadi, ma per la direttrice questo decreto fu emesso a protezione degli stessi Ahmadi. “Non è permesso loro di riunirsi pubblicamente per la loro propria protezione perché se lo fanno incitano alla violenza contro di loro”.
Ma anche senza alcuna riunione pubblica sono ancora attaccati, dice Malik Saifurrahman, un Ahmadi di Lombok. Dal 2002 la casa di famiglia è stta distrutta in quattro occasioni prima di essere distrutta nel 2006. “Molte case furono attaccate e circa 300 ahadi furono costretti a cambiare residenza.” dice l’uomo che non sa riconoscere i propri assalitori. “Mi sono spostato a Giacarta per studiare, ma la mia famiglia vive in un rifugio a Mataram creato per noi Ahmadi le cui case sono state bruciate. All’inizio il governo ci dava acqua e alimenti, ma poi tutto si è fermato”.
La signora Harkrisnowo dice di non sapere se le autorità ridaranno una casa agli Ahmadi. La commissione sulla libertà religiosa americana nel suo rapporto del 2012 registrava che almeno 50 luoghi di culto degli Ahmadi erano stati distrutti e 36 erano stati chiusi con la forza dal 2008, anche se la costituzione indonesiana garantisce la libertà di culto. Ma garantire questa libertà costituzionale è stata cosa non facile per lo stato,come dice la Harkrisnowo. “Il governo centrale ha bisogno di essere più fermo su questo problema.”
La commissione nazionale dei diritti umani, Komnas HAM, è una commissione indipendente, nomintata dal governo per monitorare le violazioni, difendere le vittime e lanciare le indagini sugli abusi. La procura generale poi conduce le indagini tranne che per quelli fatti prima del 2000 che sono trattati da una commissione ad hoc, istituita da un decreto presidenziale.
Azhar del Kontras dice che Komnas Ham ha raccomandato sette casi alla procura ma furono tutti rigettati. Harkrisnowo sostiene che la mancanza di processi per violazioni di diritti umani non si spiega con la mancanza di volontà politica, quanto su prove molto fragili. “In ogni caso si è sempre guardato se c’erano prove sufficienti o se si sono fatti errori in termini di procedure legali. Ogni volta si è deciso che nessuno poteva essere ritenuto colpevole.” Ma anche gli sforzi per creare meccanismi legali per indagare sulle violazioni di diritti umani sono rimasti nel limbo.
La corte costituzionale nel 2006 dichiarava incostituzionale la legge sulla Verità e Riconciliazione, a causa di una norma che rendeva le misure di risarcimento delle vittime legate all’emissione di una amnistia a favore dei colpevoli. Da allora una nuova legge deve essere ancora approvata.
L’Indonesia fa parte della Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici e ha ratificato la convenzione contro la tortura, ma deve ancora sottoscrivere lo Statuto di Roma del 2002 che creava la corte penale Internazionale dell’Aia.
Harkrisnowo sostiene che il governo si prepara a ratificare sia lo statuto di Roma che la convenzione internazionale sulle scomparse forzate.
IRIN