Quando il presidente Obama si è recato per la sua seconda visita in Birmania, ha dato un’intervista esclusiva al giornale e rivista Irrawaddy. E’ stata una scelta appropriata e giusto riconoscimento per una nuova produzione che, ormai da anni in modo coraggioso e giusto, scrive sulla Birmania, il cui nome ufficiale è Myanmar. Ma se si pensa che questo colpo giornalistico possa aver indotto l’Irrawaddy a moderare le sue valutazioni cristalline della politica americana allora non si è prestata l’attenzione dovuta.
Obama si è preso molto del merito per il processo di riforma di questa dittatura di lunga vita. Aug Zaw, editore dell’Irrawaddy, ha detto che la posizione dell’amministrazione verso i generali e gli ex generali, che ancora comandano la nazione del sudestasiatico, è troppo credulona e “troppo morbida”.
In una recente intervista a Washington, Aung Zaw dice: “Rispetto a chi ancora continua a guardare con lenti colorate di rosa diciamo che non è così. La situazione sta davvero arretrando.”
Il regime ha fornito una prova infelice a sostegno della posizione di Aung Zaw subito dopo la partenza di Obama dal paese, quando il portavoce del parlamento Shwe Mann ha annunciato che non ci sarebbero stati cambiamenti alla arretrata costituzione nazionale prima delle elezioni del 2015. Obama stesso aveva detto che “le elezioni sarebbero state un momento fondamentale per lo stabilirsi di una democrazia rappresentativa che riflette le aspirazioni di tutte le persone della Birmania”. Ma la costituzione garantisce ai militari una minoranza di ostruzione in parlamento ed impedisce inoltre al capo democratico più popolare del paese, Aung San Suu Kyi, di partecipare alla corsa presidenziale.
Aung Zaw ha riconosciuto che negli scorsi tre anni ci sono stati cambiamenti nel paese. Il giornale Irrawaddy, fondato nel 1993 in esilio in Thailandia, ha potuto aprire un ufficio in Birmania, e Aung Zaw stesso ha avuto il permesso di ritornare, anche se solo per periodi brevi con visti a singola entrata. I prigionieri politici sono stati rilasciati, sebbene ancora secondo condizioni, e gli investimenti esteri invadono il paese da quando gli USA e gli altri paesi occidentali hanno eliminato gran parte delle sanzioni.
Ma l’editore dice che il suo giornale si trova sotto una forte pressione affinché moderi le sue inchieste sulla corruzione e sulle violenze etniche, violenze che lui crede siano usate per promuovere il nazionalismo più becero e distrarre la gente dallo stallo delle riforme. I rappresentanti americani sono sedotti dall’accesso appena dato alle forze armate un tempo molto segrete. Ma il regime non ha intenzione di lasciare il potere.
“Sanno di non essere accettati, di non essere popolari, hanno accumulato troppa ricchezza” dice Aung Zaw. “Sanno che se l’opposizione giunge al potere perderanno tutto”.
Aung Zaw riceverà il riconoscimento per il suo dire la verità dal Comitato per la protezione dei giornalisti che gli consegneranno il Premio per la Libertà di Stampa insieme ad altre tre persone che sono:
Siamak Ghaderi che ha passato quattro anni in prigione in Iran per aver scritto sul suo blog in modo onesto sul regime del suo paese;
Ferial Haffajee che nelle acque turbolente del Sud Africa ha mantenuto l’integrità giornalistica nel riportare le questioni più sensibili della razza e della riforma politica;
Mikhail Zygar capo editore di Dozhd, il solo canale televisivo indipendente rimasto nella Russia di Putin.
Tutti e quattro meritano il nostro rispetto ed il nostro impegno a non guardare i compiti che essi hanno con lenti colorate di rosa.
EDITORIALE DEL WASHINGTONPOST