José Rizal e la pericolosa subordinazione delle Filippine verso la Cina

Scriveva il nazionalista eroe filippino José Rizal

“Grazie alla loro condizione sociale e al loro numero in quel tempo, la Dominazione Spagnola incontrò pochissima resistenza, mentre i capi filippini perdevano facilmente l’indipendenza e la libertà.

La popolazione, abituata ad essere soggiogata, non difese i capi dall’invasore né tentò di combattere per libertà di cui non aveva mai goduto.

Per la popolazione era solo un cambio di padroni. La nobiltà, abituata a essere tiranna con l’uso della forza, dovette accettare la tirannia straniera quando si dimostrò più forte della propria”.

Così scrisse José Rizal commentando la facilità con cui poche truppe spagnole ed i loro frati imposero il loro governo e la loro religione sulla maggior parte di ciò che fu chiamato Filippine secondo un loro vecchio re.

Jose Rizal

Oggi gli interessi economici di una parte della elite filippina, di cui Duterte è un tipico boss di famiglie di provincia, richiedono che si ignori l’invasione cinese dei loro mari e delle isolette per inseguire i soldi cinesi, sia sotto forma di progetti di stato o progetti opachi del settore privato approvati dal regime.

Gli stranieri, come colui che scrive, sono forse scioccati da questa mancanza di ardore nazionalista come lo fu José Rizal. La scusa addotta per non resistere, neanche in modo verbale, l’idea che le Filippine non potrebbero vincere una guerra con la Cina, appare così da codardi da lasciare disorientato chi non è filippino.

Non è questo presidente Duterte colui che incoraggiò il massacro di varie migliaia di suoi connazionali per inseguire una guerra persa contro la droga?

Non è questo lo stesso presidente Duterte i cui ordini alle proprie forze militari videro la distruzione di gran parte di Marawi per perseguire i ribelli della famiglia Maute?

Eppure neanche una singola persona dei militari filippini si è opposto all’invasione cinese dei propri mari e caratteristiche di terra, aree riconosciute internazionalmente come parte della Zona Esclusiva Filippina, che ha privato il paese dell’accesso alle proprie risorse di pesce e del fondo marino. Queste sono di immensa importanza per una nazione insulare densamente popolata e sono il cuore del principio di una nazione arcipelago che le Filippine aiutarono a portare nella legge internazionale.

L’Indonesia fu la prima a proclamare quel principio nel 1957. Sostenuto da altre nazioni costituite da tante isole come Filippine e Fiji, dopo decenni di negoziati il principio fu finalmente incastonato nella legge del UNCLOS del 1982. In pratica Duterte ha buttato via questo principio insieme anche alla vittoria del 2016 alla Corte Permanente dell’Arbitrato.

I Filippini farebbero bene ad ascoltare il disprezzo con cui sono guardati dai loro vicini di mare vietnamiti, di cui si conosce bene la volontà di soffrire per difendere la propria nazione.

Certamente ci sono tanti filippini disgustati. Uno famoso è il giudice associato Antonio Carpio che ora vede gli anni spesi nel lavoro legale sui diritti marittimi filippini gettati alle ortiche. Carpio è anche uno dei pochi giudici indipendenti di una Corte Suprema presa in una guerra civile che, con l’allontanamento del proprio rispettato presidente, mostra di essere gentaglia, agitata politicamente, che ha perso tutto il rispetto pubblico.

I militari sono chiaramente frustrati dalla mancanza di risposte alle mosse cinesi, Il loro dovere di difendere la nazione è messa da parte per difendere gli interessi pecuniari del governo Duterte e di alcuni alleati in affari. Ma i militari filippini sono sempre stati servili ai loro patroni politici. L’autore della legge marziale era un avvocato, Presidente Marcos, sostenuto da un altro avvocato Enrile a ministro della difesa. Duterte è anche un avvocato che brama di estendere la legge marziale oltre Mindanao, estendendo l’uso dei militari contro i filippini ma non contro la Cina.

La subordinazione verso la Cina sembra diventare normale in altri modi. Tre barche filippine di recente hanno completato la rievocazione di una visita in Cina nel 1417 da parte di tre governanti di Sulu. Le imbarcazioni di legno di 18 metri costruite secondo la tradizione, le balangay, sono salpate d Sulu per raggiungere Xiamen e tornare attraverso Hong Kong.

Questa è stata un’impresa nautica da ammirare ma dalle implicazioni politiche preoccupanti.

Ad Hong Kong, il Consolato Filippino invitò gli ospiti ad incontrare la ciurma e colui che la guidava, Art Valdez, sottosegretario all’ambiente, per celebrare quello che si chiamava “missione tributaria in Cina”. Le magliette indossate dalla ciurma elogiavano l’amicizia tra Cina e Filippine basata su questa relazione “tributaria”.

E’ stato un commento straordinario sull’attuale ufficiale senso filippino di subordinazione.

E’ stato anche poco accurato. Il commercio tra i porti in quella che sono ora le Filippine risalgono a vari secoli prima del 1417. Il più importante fu Butuan, un regno allora induista buddista legato ai sovrani giavanesi. La Cina amava presentare le missioni commerciali come un tributo implicando la subordinazione.

Ma da una prospettiva non cinese era solo una tassa per poter commerciare. Gli annali cinesi mostrano che i commercianti cinesi in visita dovevano offrire doni in modo simile ai governanti locali prima di iniziare a commerciare.

La visita del 1417 dei governanti di Sulu aveva probabilmente un significato politico. Ma se è così sarebbe il risultato di uno dei sette viaggi tra il 1405 e 1413 della flotta cinese sotto il comandante dell’era dei Ming, l’eunuco musulmano Zheng He. Costui aveva il disegno imperialista di portare la potenza cinese sugli stati tra il Mare di Sulu e la costa orientale africana, costringendo i capi locali a visitare la Cina deponendo quelli ricalcitranti.

Ma se è così c’è poco da celebrare nelle Filippine. Sarebbe stata più appropriata una spedizione da Butuan piuttosto che da Sulu. E’ la fonte da cui partirono i primi balangay già ritrovati e c’era un commercio regolare con la Cina e Champa nel Vietnam tra i secoli decimo ed undicesimo.

La recente spedizione da Sulu affermava di essere quella del Sultano Batara anche se gran parte delle fonti dicono che Sulu divenne un sultanato molto dopo in quel secolo. Questa storia dubbia forniva un facile ed indiretto ricordo che il Sultanato di Sulu è parte delle Filippine nonostante i secoli di resistenza agli spagnoli agli americani e di recente al governo di Manila. Ricorda anche dell’esistenza continua di un reclamo filippino su Sabah, un tempo parte del sultanato di Sulu che esso stesso era soggetto al Brunei.

Duterte ha promesso di sostenere la rivendicazione di Sabah sebbene in modo pacifico, nonostante sia stato oggetto di derisione non solo dai vicini filippini ma anche dalle ex potenze coloniali della regione, Spagna, Gran Bretagna, USA e Olanda. Ma nel frattempo Duterte mostra scarso interesse nel difendere le proprie barriere e propri mari riconosciuti internazionalmente.

José Rizal fu un pioniere nel creare il nazionalismo moderno come opposizione al governo coloniale nel sudest asiatico. Eppure tra tutti i paesi della regione le Filippine sembrano avere il più debole sentimento nazionale.

E’ un paese dove le persone istruite ed agiate migrano altrettanto prontamente come i poveri. Ancor più degno di nota è un paese che spende le sue risorse scarse in modo specifico per istruire la propria gente a diventare infermieri per poter emigrare.

Non c’è da meravigliarsi che le elite mantengano un piede in California ed alcuni ora una linea aperta con la Cina e le promesse di soldi in cambio di silenzio per quanto accade in mare.

Philip Bowring, Asiasentinel

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