Sin dai suoi inizi, l’indagine sull’omicidio dei due turisti inglesi a Koh Tao era una storia viziata.
Eppure di fronte alle rivelazioni pubbliche di cattiva gestione del caso da parte della polizia e dal dubbio diffuso sulla colpa degli accusati, le autorità furono prese di sorpresa al grido di pretesta internazionale che ha accolto la decisione della corte.
La condanna a morte degli accusati, due lavoratori emigrati birmani, ha prodotto proteste dure di strada a Yangoon e borbottii a Nay Piy taw. Ministri arrabbiati hanno affermato che era una cospirazione per screditare la polizia thai, cosa meravigliosa se lo si potesse cancellare così facilmente.
Il fatto da cui non si può fuggire è che la controversia che circonda il caso di Koh Thai è solo l’ultimo grido di protesta diretto contro la polizia thai, la cui reputazione e credibilità sembra ora irrevocabilmente macchiata agli occhi della maggioranza degli stranieri come pure dei cittadini.
Le indagini di Koh Tao furono compromesse sin dall’inizio quando la polizia non isolò bene la scena del crimine. La diceria che l’attacco fosse stato portato avanti da qualcuno legato a figure influenti dell’isola fu lasciata andare e gli investigatori prestarono velocemente l’attenzione alla comunità dell’emigrazione, rifiutandosi anche di pensare che sarebbero essere coinvolti dei thai. La polizia non diede spiegazioni sul cambio di attenzione che vide i due birmani Zae Lin e Win Zaw Htun arrestati ed accusati di quel crimine odioso.
La rispettata medico legale Pornthip Rojanasunand, che spesso si è trovata in disaccordo con le rpove offerte dagli investigatori nel passato, si è visto rifiutare l’accesso a quanto trovato dagli investigatori. La cosa suggerisce che la polizia si è lasciata prendere dalle emozioni contro il dovere e l’etica professionale. Poi comunque la Ponrthip ha potuto testimoniare all’udienza dicendo che la polizia non aveva analizzato il sangue presente sulla scena del crimine e forse ha distrutto prematuramente le prove spostando il corpo di una delle vittime.
Altri dubbi sorsero per non essere riusciti a fare test comparativi di DNA sui vestiti della ragazza e su una zappa che sarebbe stata l’arma per l’omicidio. Pornthip che testimoniava per la difesa condusse un’analisi che trovava che il DNA sulla zappa non corrispondeva a quella dei due accusati.
La corte presumibilmente diede più peso alla testimonianza dell’accusa che affermava che il liquido seminale dei sospettati era stato trovato sul corpo della ragazza, anche se l’analisi dei campioni di DNA delle tre persone, secondo altri testimoni, era stato fatto troppo in fretta.
Più problematica di tutto il caso, e per la reputazione della polizia, è il fatto che gli accusati, dopo aver ritratto la confessione una volta che fu dato in ritardo loro un avvocato, affermarono di aver ammesso il crimine dopo essere stati torturati. La corte non ha neanche preso in considerazione questo punto.
Di fronte ai tanti dubbi e incertezze, il capo della polizia generale Jakthip Chaijinda ebbe l’audacia di suggerire che un gruppo politico avesse istigato le proteste per screditare i suoi uomini. Il portavoce della polizia Piyapan Pingmuang si domandò ad alta voce perché dei 126 casi di omicidio che coinvolgono cittadini birmani nel paese lo scorso anno, nessun altro ha incontrato le proteste.
La risposta più semplice è che nessun altro caso ha conquistato l’attenzione della stampa estera perché le vittime erano cittadini britannici, dove le notizie dei media non sono solo discusse ma attente ai guai del turismo thailandese.
Inoltre la storia viziata evoca una narrativa troppo comune, migranti prive di difesa che diventano il pronto capo espiatorio nelle indagini penali e le vittime della volontà dei ricchi e potenti. I cittadini birmani sanno troppo bene le insidie del lavorare in Thailandia ad iniziare dalle orrende condizioni di lavoro. Le proteste a Yangoon, che hanno costretto alla chiusura l’ambasciata thai per questioni di sicurezza, era fondamentalmente una espressione di odio verso il modo di fare nostro nei confronti dei loro concittadini.
Con un atto che può solo significare il voler salvare la faccia, il generale Prawit ha ordinato la caccia a chi ha ideato le proteste in Birmania e Thailandia.
Piuttosto che peggiorare le cose, dovrebbe spingere per riformare la polizia.
Thenation Editoriale