Mentre il governo birmano si mette al lavoro in Birmania, appare sempre più chiaro che, per un milione di Rohingya musulmani del paese, non c’è molto da attendersi.
L’occidente ha brindato all’elezione di un nuovo governo birmano dove domina il partito di Aung San Suu Kyi, NLD.
Ma per i musulmani dello stato occidentale della Birmania, Rakhine, descritti dall’ONU come la minoranza più perseguitata al mondo, la nuova era birmana comincia già a dimostrarsi una delusione e, quasi di certo, c’è da aspettarsi il peggio.
I Rohingya hanno sopportato decenni di violenze, marginalizzazione e pulizie etniche per mano dei regimi militari birmani, e della popolazione locale rakhine, che secondo qualcuno è molto vicino al genocidio. E’ nota a tutti l’ambivalenza di Aung San Suu Kyi su questa piaga. Lei si è anche rifiutata di chiamarli con il loro nome per paura di offendere la maggioranza buddista spesso islamofoba durante la campagna elettorale per le elezioni di novembre vinte a man bassa.
Ma è certo che il primo governo birmano civile dal 1962 sarà migliore del governo dei generali cleptocrati?
Forse no. Prima giunse la notizia di metà maggio che il ministero degli esteri birmano, guidato ora dalla Suu Kyi, aveva chiesto all’ambasciata americana di non usare il termine Rohingya sulla base frivola che era “controverso” e “non sosteneva la risoluzione dei problemi che accadono nello stato Rakhine”. Gli USA hanno rifiutato. La richiesta era in profonda malafede. La gente Rakhine potrebbe anche preferire chiamare i Rohingya “Bengali”, implicando che si tratta di immigrati clandestini da quello che ora è il Bangladesh, ma questa è parte fondamentale dell’esclusione dei Rohingya dalla vita birmana che costituisce in primo luogo il problema.
Durante la visita del segretario di stato Kerry del 22 maggio,Suu Kyi è tornata sul tema dicendo che il suo governo sarà fermo nel non usare “termini emotivi” come Rohingya o Bengali. Eppure lei non ha ancora chiesto a qualcuno, dai monaci sciovinisti ai soldati o ai legislatori, di non usare il termine Bengali. I Rohingya saranno forse delusi dal presidente Obama per le minori sanzioni verso la Birmania come premio per l’ulteriore passo verso la democrazia, senza citare il fatto che non è cambiato nulla nel cattivo trattamento delle autorità verso i Rohingya.
Inoltre è evidente che i Rohingya saranno esclusi dal Processo di Pace formale che il nuovo governo birmano intende riprendere col resto delle minoranze etniche del paese. Questo processo, ereditato dal passato governo di Thein Sein, è un tentativo di trovare una soluzione duratura ai conflitti civili che piagano il paese sin dall’indipendenza dal potere coloniale inglese nel 1948. Su Kyi ha invitato ad una conferenza di pace in stile Panglong che ricorda la figura di suo padre Aung San che nel 1947 negoziò con le minoranze etniche prima del suo assassinio.
Il processo di pace ha comunque coinvolto solo quei gruppi definiti come indigeni secondo i termini della Legge di Cittadinanza del 1982, fatta dai militari e molto controversa, secondo cui i Rohingya non sono cittadini della Birmania e non sono mai stati inclusi in tale processo.
Molto probabilmente il governo tenterà semplicemente di parcheggiare la questione Rohingya, percepita come marginale. Il nuovo presidente Htin Kyaw ha istituito un “comitato centrale per l’implementazione della pace e dello sviluppo nello stato Rakhine” dal nome superbo costituito da 27 rappresentanti, tra i quali vi sono membri del governo e rappresentanti del governo Rakhine e presieduto da Suu Kyi stessa.
I Rohingya dal canto loro temono che si tratti di uno strumento burocratico che vuole posporre ogni decisione decisa e a cui loro temono di non poter dare alcun contributo. Nel frattempo il governo birmano si metterà al lavoro per stendere una costituzione in stile federale, necessaria per soddisfare le aspirazioni politiche delle altre minoranze etniche.
C’è tanta simpatia nel NLD verso le altre minoranze etniche e le loro sofferenze dei decenni passati, e quindi ci si attende un negoziato in buona fede con questi gruppi che hanno la loro rappresentanza ad alto livello nello stesso NLD.
C’è invece poca simpatia verso i Rohingya nel partito NLD che è marginalmente meno pieno di islamofobia e pregiudizio verso i Rohingya del vecchio governo militare. Né i Rohingya hanno voce alcuna o rappresentanza all’interno del NLD.
Infatti per la prima volta negli ultimi anni, sin dalle ultime elezioni non c’è un solo legislatore musulmano nell’intero paese, nonostante che la popolazione musulmana in Birmania si aggiri attorno ai 3 milioni. Suu Kyi sa bene che non esiste una forza politica in Birmania di aiuto ai Rohingya, come anche sa che non hanno un’ala armata, come invece l’hanno le altre etnie, così la loro capacità di rendere la vita difficile alle autorità è sempre stata molto inferiore. In altre parole, oltre alla propria coscienza, il capo di fato della Birmania ha pochi incentivi nazionali a fare qualcosa per i Rohingya.
Il rischio che marginalizzare la questione Rohingya possa vere effetti devastanti sulla loro situazione già disperata. Separati dal resto della popolazione nei campi profughi o rinchiusi nei loro villaggi, la loro libertà di movimento è fortemente ristretta. Sono stati tagliati fuori dalle loro fonti di sostentamento e vivono nella propria terra in condizioni da Apartheid.
Un medico Rohingya che vive in Germania, Ambia Preveen, afferma che al 90% dei Rohingya è negato l’accesso ad un centro di cura formale.
Uno studio recente sulla povertà e la salute nello stato Rakhine di Mahmood Saad Mahmood per Harvard University mostra una vasta disparità tra i Rohingya e il resto della popolazione Rakhine: c’è solo un dottore per 140 mila Rohingya, mentre nel resto dello stato Rakhine a prevalenza di popolazione Rakhine, c’è un dottore ogni 681 persone. La forte malnutrizione colpisce il 26% della popolazione nelle aree a prevalenza Rohingya dello stato Rakhine, mentre scende al 14% nelle altre aree.
Se i Rohingya dovessero abbandonare ogni prospettiva di cambiamento nel nuovo governo birmano del NLD, e potrebbe pure accadere, allora, di tornare alle barche, come fecero lo scorso anno, per scappare in massa verso altri paesi musulmani del sudestasiatico. Rischieranno di annegare in imbarcazioni fatiscenti date loro da trafficanti di schiavi senza scrupoli, ed ancora una volta la crisi si diffonderà all’estero.
Cosa si può fare? Poiché non esiste un imperativo nazionale ad aiutare i Rohingya, dipende da paesi come gli USA o la Gran Bretagna ad esercitare tutta la pressione possibile sul governo di Suu Kyi su questa questione. I paesi occidentali hanno aiutato in modo incredibile alla ricostruzione del NLD come partito funzionante, nel dare a Suu Kyie ai suoi ministri esperienza tecnica e consigli pratici, e nel rafforzare e istituzioni come il parlamento al centro della transizione democratica.
Se si considera questa leva deve essere chiaro che un milione di Rohingya sono parte essenziale di quella nuova democrazia, e che, nonostante non siano tecnicamente cittadini con la costituzione attuale (costituzione che Suu Kyi rigetta per differenti ragioni), il governo sarà giudicato da quanto riuscirà a proteggerli e ad includerli. Ed anche se NLD si tira indietro nel dare la cittadinanza ai Rohingya, come ha chiesto già l’ONU, potrebbe per lo meno cancellare la legislazione repressiva approvata dall’ultimo governo militare come le quattro leggi della Protezione della Razza e della Religione.
Queste leggi approvate nel 2015 furono ispirate da movimento dei monaci nazionalisti e razzisti del Ma Ba Tha miranti a restringere la libertà e le scelte personali dei musulmani birmani. Se applicate, queste leggi potrebbero causare molte più tensioni specialmente tra Rakhine e Rohingya. Quando era all’opposizione NLD si batté contro queste leggi. Ora che è al otere dovrebbe cancellarle mandando un chiaro segnale che il nuovo governo è preoccupato realmente dei diritti civili ed umani di tutti quelli che vivono nel paese e che i Rohingya sono parte del processo più vasto di riforma.
Ma anche le altre minoranze devono avere un ruolo da svolgere, come i Rohingya stessi che per tanto tempo sono stati isolati dalle altre minoranze, sia politicamente che geograficamente, accrescendo così la loro marginalizzazione. Sebbene la questione Rohingya sia ora bene conosciuta fuori della Birmania, se ne sa ben poco nel paese stesso.
Piuttosto che investire tutte le loro speranze nella comunità internazionale, i Rohingya dovrebbero prendere l’iniziativa per costruire i ponti con le altre minoranze etniche che hanno sofferto anche loro a causa dei governi centrali dominati dalla maggioranza di etnia birmana, er rafforzare la loro posizione politica e rendere la loro situazione visibile.
E’ nell’interesse di queste altre minoranze superare i propri pregiudizi contro i Rohingya, perché questi ultimi portano con sé considerevole buona volontà internazionale, sostegno diplomatico e potenzialmente denaro al tavolo del negoziato. Per tutto il bene che la comunità internazionale può fare, il cambiamento reale non giungerà finché le dinamiche politiche della questione Rohingya non ambieranno dentro la Birmania stessa.
Richard Cockett, Foreignpolicy.com