13 sono i lavoratori emigranti indonesiani nel braccio della morte delle prigioni dell’Arabia Saudita, per lo più lavoratori domestici che hanno reagito con la violenza ai soprusi subiti.
Dodici anni fa Haryatin, emigrata indonesiana, andò in Arabia Saudita assunta come domestica e si lasciò dietro, a casa con la sua famiglia di Blitar a Giava Orientale, la figlia di due anni, nella speranza di migliorare la condizione di vita della sua famiglia.
Se ne andò nel 2006 con tutta la giusta documentazione e iniziò a lavorare come domestica con una famiglia saudita per un salario di 150 euro al mese.
La famiglia del suo datore di lavoro cominciò comunque a trattarla male e nel giro di soli tre mesi il trattamento si era fatto tanto brutale che la donna rimase cieca.
“Persi la vista ad entrambi gli occhi sette anni fa perché la moglie del mio datore di lavoro mi colpiva ripetutamente agli occhi spesso senza ragione” racconta la donna a ucanews.com.
Haryatin ha detto che era costretta a lavorare fino a 18 ore al giorno a cucinare, fare il bucato, pulire la casa e fare il bagno al suo padrone.
Nel 2010 tornò in Indonesia dopo aver ricevuto un sostegno finanziario da uno dei parenti del suo padrone.
All’arrivo a Giava Orientale la famiglia la portò in diversi ospedali a Surabaya e Giacarta sperando di trovare un dottore che le potesse ridare la vista.
Chi la visitò le disse che sfortunatamente non c’era speranza.
Nonostante l’essere diventata cieca Haryatin si è trovata un proprio ruolo, fare propaganda contro la condanne a morte di lavoratori emigranti indonesiani nel regno islamico ortodosso.
La recente esecuzione di Tuti Tursilawati le ha fatto capire che coloro che sono condannati a morte in Arabia Saudita non hanno possibilità di salvarsi se non si rende pubblico nel paese il trattamento malvagio dei lavoratori della migrazione.
Tursilawati, che aveva 34 anni e proveniva da Giava Occidentale, è stata decapitata il 29 ottobre nella città saudita di Thaif per aver ucciso il sui datore di lavoro, Suud Malhaq Al Utibi, 11 maggio del 2010.
“Molti di noi lavoratori sono tormentati e trattati ingiustamente ogni singolo giorno. Ma se uno di noi è torturato oppure stuprato, non c’è nessuno ad aiutarci” dice Haryatin.
All’inizio dell’anno il 18 marzo, Muhammad Zaini Misrin di 53 anni di Madura, a Giava Orientale, fu decapitato dopo essere stato giudicato colpevole della morte del suo datore di lavoro nel 2005, secondo Migrant Care che lavora sull’emigrazione. Misrin era arrivato nel regno nel 2003 come autista.
Migran Care dice che non ha mai ricevuto un processo equo e ha descritto la sua esecuzione come “una grave violazione dei diritti umani”.
Nel riferirsi a chi ha risposto ai loro torturatori e che ora sono in carcere, Haryatin dice: “Sembra che abbiano agito in autodifesa. Non intendevano uccidente nessuno. Sono andati lì per guadagnarsi da vivere per la famiglia”.
“Molti si saranno trovati nella situazione di dover uccidere o essere uccisi” dice la donna.
Appena dopo l’esecuzione di Tursilawati, Haryatin si è appellata al governo indonesiano perché faccia degli sforzi diplomatici con l’Arabia Saudita per salvare le vite di altri lavoratori nel braccio della morte.
Secondo il ministro degli esteri indonesiano sono 13 suoi nazionali nel braccio della morte per presunti crimini che vanno dall’omicidio al traffico di droga. Tursilawati è stata la sesta persona indonesiana ad essere stata decapitata negli ultimi cinque anni.
Un’altra nel braccio della morte è Eti binti Toyib Anwar, una donna di 49 anni del villaggio di Cidadap di Giava Occidentale. Condannata a morte nel 2002 perché lei con altro lavoratore indiano cospirarono per avvelenare il loro datore di lavoro.
Secondo Nurharsono di Migrant Care, Tohib potrebbe sfuggire alla morte se riesce a trovare un milione di euro per pagare i danni alla famiglia del datore di lavoro, un obiettivo quasi impossibile.
Comunque la famiglia è riuscita a raccoglierne la metà ed attende che altri benefattori si uniscano a salvarle la vita.
Migrant Care ed altre ONG dicono di non poter offrire assistenza legale a chi si trova nel braccio della morte perché non è permesso loro di accedere alle carceri. Solo il governo indonesiano ha questo privilegio.
ONG indonesiane, ex emigrati e membri della chiesa hanno protestato contro i due governi per l’esecuzione di Tursilawati e si sono appellati per fermar questa pratica.
Sorella Agata Priuntari, che guida la commissione giustizia e pace per la sua congregazione, dice che Riyadh sta condannando la pratica di abusare dei lavoratori stranieri.
“Davvero ci dispiace di quello che è accaduto e vogliamo che i diritti e la dignità dei lavoratori dell’emigrazione siano protetti” ha detto Sorella Priuntari che di fronte all’ambasciata dell’Arabia Saudita a Giacarta ha denunciato la pratica della pena di morte perché la vita umana deve essere rispettata.
Lalu Muhammad Iqbal del ministero degli esteri indonesiano dice che nel 2011 fu firmata una moratoria per smettere di inviare lavoratori in Arabia Saudita
“Lo si sta applicando ancora per il livello di violenza che i lavoratori domestici ancora vivono in quel paese”
Konradus Epa, UCANEWS